In breve:

Ciao Paolo, cantore della Sardegna

Paolo Pillonca

di Giacomo Mameli.
Paolo Pillonca è tornato sotto i Tacchi di una delle sue tante Itaca, Arcuerì e Perda Liana. Riposerà in bidda, in su campusantu de Santu Pìlimu.
In principio, la sua Itaca fu Osilo, dov’era nato nel 1942 e dove tornava quando poteva. Poi Orgosolo, dove ha trascorso l’infanzia ricordando le gesta dei compagni di scuola. Poi il collegio di Lanuseidove ha studiato con un professore in tonaca e che ha ricordato in ospedale a Cagliari fino agli ultimi giorni di vita (“don Federici, maestro salesiano di vita”). Ancora il liceo classico a Tempio, l’università a Cagliari, la laurea con il glottologo Antonio Sanna.
Professore di Lettere alle medie e al liceo di Seui. Dalla cattedra ai giornali, prima a L’Unione Sarda (caposervizio per la cronaca di Nuoro), poi alla Nuova Sardegna per la pagine culturali e alla Rai. E poi capufficio stampa della Regione ai tempi del più amato fra i presidenti, Mario Melis, il sardista eurodeputato nato ad Arbatax ed ex sindaco di Oliena.
Poeta lui stesso, versatile come pochi altri, scrittore infaticabile ed elegante, autore di testi teatrali, “paroliere” per molte canzoni di Piero Marras e Franco Madau, attore per il cinema. E soprattutto – come Manlio Brigaglia e Bachisio Bandinu – conferenziere fra i più amati in Sardegna.
Legatissimo a Lanusei, è stato uno dei componenti della giuria del premio letterario San Giorgio.
Amava Francesco Masala e rileggeva “Sos laribiancos”. Adorava Giovanni Lilliu col quale parlava sempre in campidanese si trovasse in Gallura, in Barbagia o nella casa di via Copernico del Sardus Pater dell’archeologia. In macchina ripeteva in metrica autori greci e latini (i preferiti Omero e Orazio) ma anche le ottave di tziu Remundu Piras di “Nenaldu sun tres annos chi ti prego” e Peppe Sozzu di “Chentu ‘iddas, chentu modas”.
Pillonca è stato soprattutto una Treccani nuragica vivente, l’enciclopedia per eccellenza della poesia dialettale. Del sardo conosceva tutte le varianti: e paese per paese conosceva le differenze minime, perché a Villagrande parlava in biddamannesu, ad Arzana in artzanesu. È stato anche uno dei più acuti analisti sociali della sardità nel passaggio dall’economia agropastorale a quella postindustriale. Nessuno come lui conosceva, paese per paese, i “vati locali”.
Abbandonata per scelta la cattedra nei licei, era passato al giornalismo. Lo aveva scoperto negli anni Settanta un grande cronista, Vittorino Fiori. Amava raccontare i “senza voce”. Con Pillonca le “gare poetiche” erano diventate un fatto di cronaca nelle pagine de La Nuova Sardegna dove si potevano raccontare in rima la Guerra del Golfo e le crisi di Governo, i sequestri di persona e le sventure industriali, le iniziative dei circoli degli emigrati. Da cronista fu vittima, con la moglie, di un colossale errore giudiziario, ma mantenne equilibrio nei giudizi verso la magistratura.
Forse oggi Paolo citerebbe Quintiliano: “Mors malorum finis est”, la morte è la fine di tutti mali. Ma anche di tutti i miti. Paolo un mito lo è stato. In sa santa gloria.

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