In breve:

A tu per tu con Massimiliano Tuveri

Tuveri

di Giusy Mameli.

Strumenti di speranza accanto a chi soffre

Massimiliano Tuveri. Da quando eravamo compagni al liceo ne hai fatta di strada! Chirurgo agli onori della cronaca per una diatriba con l’Azienda Ospedaliera Brotzu di Cagliari che ti ha portato a lavorare fino a novembre prossimo a Lanusei: ti aspettavi tutto questo clamore?

Vivo di rendita, dell’affetto delle persone per mio padre, primario a Lanusei negli anni ’80 e ’90: ho osservato da spettatore la mobilitazione per la mia situazione professionale anche con la raccolta di firme on line; per me è ricominciare una nuova avventura, nel posto che ho amato di più, il luogo dei ricordi, degli affetti.

Un concorso come chirurgo oncologo al Brotzu, vinto da te che non sei stato messo in condizioni di operare. La tua vicenda è una questione di giustizia e verità: cosa ti senti di dire a proposito?

Non posso parlare della complessa vicenda giudiziaria in corso, ma posso dire che a Lanusei presterò il mio servizio a chi ha bisogno in un Ospedale che ha fatto grandi passi avanti, ha raggiunto risultati impensabili grazie ai colleghi che qui lavorano, al primario Gian Pietro Gusai, e in particolare ai colleghi di chirurgia: faremo un bel lavoro sin dove si potrà arrivare.

Per i pochi che non ti conoscono, quali sono le tue specializzazioni?

Chirurgia vascolare e chirurgia generale, in particolare chirurgia epatica per la ricerca dei trapianti a Huston e successivamente chirurgia oncologica; faccio ricerca da sempre con il CRS4 di Rubbia e ho collaborato con scienziati come Quarteroni e Veneziani. Laurea e specializzazione all’Università di Cagliari: ho fatto gavetta, ma non mi hanno consentito di proseguire all’Università; andai in Texas dove mi hanno accolto subito, interessati alle mie competenze di fluido dinamica e reclutato per studi riguardanti il fegato computazionale, che non è un fegato artificiale, ma una grande equazione matematica. Stiamo costituendo un consorzio europeo su questi aspetti poco conosciuti, grazie ai contatti che ho al CRS4.

Poco tempo fa hai perso uno dei tuoi più cari amici: tra morte e vita, quanto conta il sostegno spirituale e la visione cristiana?

Il percorso di fede è centrale per la vita di ogni uomo (credente o no): compiamo atti di fede tutti i giorni. La fede è una forma di conoscenza che non umilia ma completa la ragione. Sono cresciuto in Comunione e Liberazione con l’amico fraterno Salvatore Pisu, scomparso per una grave malattia degenerativa. La fede consente di comprendere molte cose, anche tecniche, che nella professione non riusciremo a comprendere appieno. Non tutto ciò che è fattibile è buono e nell’oncologia il problema è supportare la speranza, che non è un semplice ottimismo: “andrà tutto bene”. Io non dono speranza: cerco di trasmetterla, non salvo nessuno, sono indegno strumento di bene, per migliorare la vita dei pazienti (se possibile); nell’alleviare la sofferenza, molte cose possono apparire più semplici anche se non lo sono.

A chi dirà che per te rientrare a Lanusei è solo un ripiego, una retrocessione, una sconfitta, cosa rispondi?

Non hanno capito cos’è la nostra professione: Don Milani diceva che la grandezza di una vita non si misura dalle dimensioni dei luoghi in cui vivi, ma da ben altro!

Tu conosci il sistema sanitario statunitense, puoi dirci che in Italia siamo ancora fortunati? Perlomeno sulla qualità del servizio offerto e sull’accessibilità alle cure.

Il sistema salute è patrimonio dell’Italia, va preservato, difeso e promosso; credo nel principio di sussidiarietà dove il privato può lavorare con le strutture pubbliche. Certe prestazioni sanitarie molto complesse e costose le può garantire solo il pubblico, il privato spesso si tira indietro da situazioni complicate. La salute e l’educazione devono rimanere le priorità.

Io ho lavorato in un ospedale americano pubblico, facevamo i trapianti anche per i non abbienti. Il problema reale è l’accesso alle cure. Se ad esempio hai un infarto a Firenze, ma l’ospedale pubblico è a Napoli, il tempo di percorrenza per arrivare a salvarti la vita è praticamente ingestibile. Nel momento in cui in Sardegna ci mettono mesi per una risonanza è un grave problema di accesso alle cure, non tollerabile.

Pensi che l’essere uomo ti abbia agevolato nel gestire meglio la fatica di dividersi tra famiglia e lavoro?

Lo ammetto, può essere, perché la donna fa sempre un doppio lavoro se ha figli, ma in famiglia la fatica va divisa e condivisa.

Una realtà come la nostra, Ogliastra/Sardegna, potrebbe ripartire dalle eccellenze, come nel caso della chirurgia che in questi mesi vede te e Gusai impegnati nel medesimo piccolo ospedale?

Si possono avere eccellenze. Se tu dai un servizio ben fatto, tu sei un’eccellenza: non è solo la difficoltà dell’intervento chirurgico in sé. Il sistema funziona se rispondi alle esigenze del paziente; eccellenza non è fare cose fantasmagoriche, ma spesso purtroppo si difendono autoreferenzialità.

Io vado alla ricerca di un maestro non di un gran maestro!Mi piacerebbe tanto formare altri giovani e trasmettere loro le competenze che ho acquisito. Il problema della Sardegna è l’appartenenza non la competenza: è appartenere a certi contesti. Ci sono persone e apparati che hanno scisso il potere dal servizio, ecco perché spesso anche il sistema sanità non funziona.

In un noto film, “Un medico, un uomo”, un chirurgo senza un minimo di umanità pensa che per fare il proprio lavoro si debba alzare un muro con i pazienti per non affezionarsi. Possibile che restare umani sia l’eccezione e non la regola?

Il paziente si rivolge a te non come numero, ti chiede di fare un pezzo di strada con lui. Il problema del distacco, nella professione, è una questione di equilibrio che non deve essere interpretato solo come: io sono il medico e prendo le distanze da te paziente.

Il sistema clientelare dove contano i favori e non i meriti, del potere fine a sé stesso. Pensavamo di essercene liberati e invece… Chi ha timore del dottor Massimiliano Tuveri?

Chi ha paura di confrontarsi sia sul piano professionale che umano e chi non mi conosce, perché capirebbe che amo lavorare in équipe. Dio ci ha dato dei talenti e li dobbiamo mettere veramente al servizio del prossimo: chi ha paura di me ha paura di sé stesso e non ama la Sardegna.

I tuoi studi dai Salesiani a Lanusei hanno forgiato lo studente e anche il nostro Liceo Classico non è stato da meno: possiamo dire che molto spesso i limiti ce li mettiamo noi e il piangerci addosso è ciò che ci condiziona?

Ricordo i miei insegnati salesiani con affetto e nostalgia: anche molto severi per quei tempi: don Antonio Ibba, don Deiala, ad esempio. Sono molto grato agli educatori dei tempi di gioventù, sono nate le amicizie per tutta la vita. Non ci sono limiti se si coltiva determinazione e se confidiamo nella Provvidenza.

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