In breve:

Volti e persone

Amalia Usai

Amalia Usai. Una madre per i sacerdoti

di Michele Loi.

Chi vive per sé perde tutto. Chi vive per gli altri, donando la sua vita, questi diventa grande. Questi valorizza il tempo e l’eternità

Sono parole di Don Stefano Lamera, sacerdote della famiglia paolina, le cui meditazioni Amalia ha fedelmente trascritto per oltre 30 anni, e che si leggono nell’ultima copia del foglio “Ancilla Domini”, che puntualmente, con materna premura, mi inviava. In queste parole, mi sembra davvero di potere leggere il suo testamento spirituale. Amalia non ci scriverà più, ma quello che più conta, al termine della nostra vita, è, come ebbe a dire Papa Benedetto XVI, «ciò che avremo scritto nelle nostre anime immortali».

La notizia della sua morte improvvisa, lo scorso 6 dicembre, ci lascia certo smarriti, come quando viene a mancare una mamma, una sorella, una maestra di vita. Nel contempo, tuttavia, ci accompagna una grande serenità, unita alla certezza di avere acquistato, presso Dio, qualcuno che penserà e intercederà per noi.

La sua formazione cristiana inizia in famiglia, a Talana, in un ambiente profondamente credente, che darà alla Chiesa ben tre vocazioni religiose e una nel ministero ordinato del diaconato permanente. Prosegue in parrocchia, alla scuola di quel santo sacerdote che fu Don Emanuele Cabiddu, parroco di Santa Marta negli anni della sua giovinezza, grande formatore di anime, per il quale Amalia conserverà sempre grande venerazione e gratitudine. In seguito, durante il periodo degli studi magistrali a Cagliari, presso l’asilo della marina, ebbe modo di conoscere ed entrare in confidenza con Suor Teresa Tambelli, la venerata madre dei piccoli abbandonati di Cagliari, per la quale oggi è in corso la causa di beatificazione, prosecutrice dell’opera della Beata Suor Giuseppina Nicoli.

Decisiva però, fu senza dubbio, per la sua crescita umana e spirituale, l’incontro con la famiglia paolina, fondata dal Beato Giacomo Alberione, e in particolare, con don Stefano Lamera, con cui diede vita all’Associazione “Ancilla Domini”, per la cura e assistenza spirituale e materiale dei sacerdoti. Questa associazione laicale, ispirata agli insegnamenti sulla donna associata allo zelo sacerdotale, del fondatore della stessa famiglia paolina, fu approvata dal Vescovo di Trieste, Eugenio Ravignani, il 1 giugno 1997.

In questo nuovo compito, Amalia profuse, senza risparmio, le sue grandi doti di mente e di cuore. Il sacerdote era davvero per lei “Alter Christus”, per il quale pregare e offrire letteralmente la vita. Certamente Amalia ricordava l’esempio di Santa Teresa di Gesù Bambino; per i sacerdoti pregava, di giorno e di notte. Per loro preparava da mangiare, li visitava quando erano malati, offriva una fattiva e costante collaborazione in tutte le iniziative di apostolato, faceva penitenza e faceva celebrare le Sante. Messe quando il Signore li chiamava a sé. Era per loro una vera madre, la collaboratrice che tutti vorrebbero avere in parrocchia, la consigliera saggia che sapeva giudicare, con la luce di Dio, persone e avvenimenti.

La sua intelligenza acuta era sempre aperta alla relazione con l’altro, all’amicizia sincera e disinteressata, all’attenzione che sapeva intuire e prevenire, con premura, le necessità dei fratelli. Aveva sempre la battuta pronta, in grado di smorzare situazioni di tensione o di imbarazzo, e di ristabilire un clima sereno e costruttivo.

La sua singolare testimonianza di totale corrispondenza alla Grazia e di amore appassionato alla Chiesa e ai sacerdoti, non può essere dimenticata. In questo anno in cui la Diocesi d’Ogliastra festeggia e celebra i 200 anni dalla sua fondazione, sono convinto che uno dei frutti più belli della nostra santa e amata Chiesa, sia proprio la vita totalmente donata di Amalia Usai.

Nel suo feretro ho voluto deporre una stola e un purificatoio, in segno di gratitudine, a nome di tutti i sacerdoti, per cui lei si è offerta senza risparmio, come una vera madre.

 

 

Daniele Pinna

Daniele Pinna. Formazione e qualità. L’accoglienza è servita

di Anna Piras.

Daniele Pinna è un giovane imprenditore di 35 anni. Vive a Tortolì con la sua compagna Jessica e il loro bimbo Tommaso di appena sei mesi.

Partendo dall’esperienza lavorativa del nonno e dei genitori, ha costruito una realtà imprenditoriale che spazia dalla ristorazione all’ospitalità alberghiera, con uno sguardo al passato, alle peculiarità del nostro territorio e alla tradizione, ma sempre protesa all’innovazione, alle nuove tendenze e alla crescita professionale.

Abbiamo incontrato Daniele all’interno delle sue strutture e ci ha descritto la sua esperienza a partire dalla storia della sua famiglia, quasi come dentro un bel libro, in un filo che si dipana dagli anni sessanta e arriva ai giorni nostri. Suo nonno, Salvatore Scattu, fu il primo imprenditore a portare a Lanusei la musica moderna nel suo locale e lo fece installando un jukebox per allietare i clienti e fu anche il primo a servire la pizza in Ogliastra.

La sua voglia di costruire una realtà economica importante lo convinse ad aprire uno chalet a Lanusei, lo Scattu Show. Era il 1962. Si può dire senza timore di essere smentiti che il suo lavoro e le sue passioni abbiano contagiato il resto della famiglia. La madre di Daniele, Anna Rosa, divenne ben presto anch’essa parte attiva di questo mondo tanto creativo, quanto complesso. Si sposò con Giuseppe, un giovane di Villasimius, da tutti conosciuto come Geppo, e fecero dei servizi di ristorazione la loro missione e la loro passione.

Due cuori e un piatto di pasta. Fu così che i due nel 2015 aprirono a Tortolì il ristorante Sa Contonera, dando seguito a quella che è stata la strada maestra anche per Daniele, cresciuto in cucina, sull’esempio della sua famiglia.

La “saga familiare”, nata nel piccolo locale di Lanusei dall’atmosfera unica, continua oggi a scrivere le sue puntate, grazie alle aspirazioni di Daniele che ha ereditato la passione per i sapori d’Ogliastra e per l’ospitalità. Ora è lui il titolare del ristorante tortoliese che è anche Hotel.

Nel 2018 dà avvio a una nuova avventura, la pizzeria Geppo’s,che conserva il nome di suo padre e la genuinità della tradizione di famiglia, senza farle mancare il suo tocco personale e una grande attenzione alla qualità e alla soddisfazione del cliente.

Poi ci sono i numeri, perché anche quelli sono importanti: circa 7mila le presenze all’anno e 20mila le consegne a domicilio per questo giovane che guarda oltre, progetta e realizza il futuro per sé e per la sua famiglia, facendo ogni giorno un passo avanti. Si spiega anche così l’apertura del bar Geppo’s all’interno di un grande supermercato, a Tortolì.

Voglia di crescere e di portare avanti i propri sogni, tenendo ben saldi i piedi per terra, rimanendo al passo con i tempi, con le tendenze del mercato e le realtà economiche presenti nella penisola e all’estero. Aspetti per i quali la formazione è fondamentale. Per questo Daniele prepara spesso la valigia e parte: Milano, Rimini, Riva del Garda, città d’eccellenza per le fiere e le iniziative di settore. Ma la sua meta è qualunque luogo nel quale vi siano opportunità formative e di crescita professionale: «Apprendere è fondamentale – sottolinea il giovane imprenditore –, così come ascoltare, confrontarsi e osservare altre esperienze e tendenze. L’utilizzo delle tecnologie e delle innovazioni, inoltre, facilitano il lavoro in team, migliorando i servizi offerti e la qualità di vita di tutti».
Il segreto della gestione di tante realtà diverse e dislocate in luoghi differenti? Di sicuro, oltre la formazione continua per sé e per i dipendenti, la ricerca di soluzioni pratiche e dinamiche con le quali portare avanti il lavoro, la valorizzazione delle prerogative e attitudini di ciascuno, secondo quella che è la “regola della polivalenza”: tutti, all’interno dell’azienda, devono essere in grado di svolgere un gran numero di funzioni con la massima competenza.

Inutile dire che gli alti e bassi non sono mai mancati, ma Daniele ha sempre cercato di guardare avanti, imparando anche dalle esperienze negative e dagli errori. E questo diventa proprio il consiglio per chi vuole progettare una nuova impresa e cimentarsi nel lavoro autonomo: «Accedere al credito spesso può essere difficoltoso – fa notare –, non immediato, ma è possibile quando si hanno idee chiare e un progetto valido, con prospettive di crescita».

Persino il periodo della pandemia è stato vettore di nuove opportunità per Daniele che non si è dato per vinto, ma ha trasformato in nuova opportunità ciò che a tutti sembrava una strada buia. Rimboccandosi le maniche, ha saputo avvicinarsi ai suoi clienti in modo innovativo, riuscendo a trasformare una probabile crisi in alternativa. E il suo è un racconto ancora in divenire. Nuovi progetti all’orizzonte? Certo che sì: un’idea, che sta maturando lentamente e che presto vedrà la luce, ma che per il momento preferisce non svelare. La saga, insomma, continua…

Laura Melis

L’arte come terapia

di Anna Piras.

Piticobà a Tortolì è uno spazio dove l’esplorazione si coniuga con la scoperta, la bellezza, il benessere per grandi e piccoli. Laura Melis è l’artefice di questo micromondo aperto a tutti

Si può dar vita a una nuova attività lavorativa, coniugando importanti elementi? La risposta è sì. Abbiamo incontrato Laura Melis per parlare con lei del suo percorso professionale e della sua attività. Abbiamo ripercorso le fasi che hanno caratterizzato la sua idea di impresa nata da un’idea innovativa e di come sia riuscita a progettare e realizzare il suo centro, Piticobà, a Tortolì.

Si tratta di una struttura davvero particolare, dove si svolgono attività di artiterapie e Snoezelen in uno spazio esplorativo dove nulla è lasciato al caso e tutto è volto al benessere della persona. I sorrisi dei piccoli ospiti e i loro occhietti curiosi trasmettono serenità e gioia.

«Il mio Piticobà nasce come un centro delle terapie espressive e corporee – racconta Laura –, uno spazio esplorativo in cui le artiterapie e lo Snoezelen si fondono per diffondere benessere e contribuire alla cura e alla crescita della persona. La struttura è stata inaugurata tre anni fa, a maggio del 2021, ma la sua ideazione e progettazione risale al 2018, anno in cui ho fatto domanda di finanziamento Resto al Sud – l’incentivo che sostiene la nascita e lo sviluppo di nuove attività imprenditoriali e libero professionali in diverse zone centrali e meridionali d’Italia, ndr –. Da quel momento, di difficoltà e sfide da affrontare ce ne sono state tante, a partire dalla messa in forma della mia idea imprenditoriale, che era sì chiara nella mia mente, ma non in quella di chi avrebbe dovuto guidarmi nella realizzazione e ancor meno delineata nei regolamenti attuativi e nelle normative vigenti. In sostanza il progetto era apparso da subito innovativo e valido, ma difficilmente inquadrabile e progettualmente ostico. La mia idea era quella di creare un luogo d’ascolto e condivisione, aperto a tutti, che potesse creare buone occasioni di scambio e che aprisse piccoli spiragli di consapevolezza».

Strada ardua e complessa, nella quale Laura Melis si prepara, studia, si specializza attraverso percorsi formativi mirati, con l’obiettivo di rendere il suo centro, praticamente unico: «Durante il mio percorso universitario nella facoltà di Scienze dell’Educazione – spiega – ho avuto la fortuna di lavorare e crearmi una lunga esperienza lavorativa, ma soprattutto comprendere come volessi spendere le mie competenze e quali altri strumenti voler acquisire nel tempo con la mia formazione. Le mie passioni e le mie attitudine hanno finalmente trovato nutrimento nei percorsi di specializzazione: quello triennale come arte terapeuta e quello come operatore Snoezelen, ultimati entrambi dopo l’apertura del centro, che hanno delineato in maniera marcata non solo le mie esperienze e le mie scelte formative, ma anche il mio progetto dandogli l’identità che ancora oggi, tra mille sforzi e difficoltà combatto per preservare».

Determinazione e tenacia. Sono le caratteristiche della giovane professionista ogliastrina che mai si è arresa dinanzi ai cavilli burocratici, ai problemi di accesso ai finanziamenti o alla ricerca dell’inquadramento specifico per il suo centro, anche se le difficoltà non mancano mai. Una certezza solida: la sua famiglia che la segue e la incoraggia: «Tante sono state e sono tutt’oggi le volte in cui ho pensato di mollare – ammette –. Se in fase progettuale le paure maggiori sono state quelle di veder sfumare un sogno prossimo alla realizzazione, adesso le difficoltà maggiori stanno nel restare a galla, sopravvivere alle innumerevoli spese e incombenze di una Partita Iva che non ammette leggerezze o distrazioni. Se vuoi sopravvivere devi correre e marciare senza poterti concedere il lusso di rallentare, come nel caso della maternità, per citare un esempio che mi ha riguardata da vicino. Per fortuna ho avuto chi ha creduto da subito in me e nelle mie idee: la mia famiglia. Mi sono resa conto delle mille e più criticità e difficoltà che i giovani incontrano nel costruirsi un futuro, nell’accedere al credito e nel portare a compimento i propri progetti. L’ho imparato a mie spese, giorno dopo giorno: bisogna scontrarsi con normative ormai poco adeguate ai nostri tempi, che ostacolano persino la cosa più semplice quale quella di poter assegnare un codice all’impresa, regolamentarne gli spazi interni, inquadrarla e poterle dare vita. La mia famiglia ha creduto in me più di quanto ci credessi io in certe giornate!».

Portare avanti un centro così all’avanguardia nell’offerta alle famiglie, sicuramente ha fatto la differenza. Ma in che modo, in questo spazio, ci si prende cura degli altri? «Le possibilità sono diverse e personalizzabili in base alle età e ai bisogni. Con la prima infanzia è semplice: si parte da zero in un percorso guidato di sperimentazione e indagine. Si fa esperienza dei materiali artistici, naturali e di recupero, per conoscerli e farne uso, come mezzo espressivo del nostro immenso universo interiore. Ma tutte le arti fanno da padrone nelle nostre proposte: l’espressione corporea per esempio, dove si entra in contatto con le parti del nostro corpo, ampliandone la percezione e il potenziale; la musica e gli strumenti, che ci guidano nei lavori di gruppo e ci permettono di entrare in contatto col suono e col ritmo; e poi ovviamente la stimolazione sensoriale controllata e modulabile come ci insegna lo Snoezelen. Con gli adulti, o con chiunque scelga di avvicinarsi a noi, vale lo stesso principio, ma cambiano gli obiettivi e anche le modalità vengono adattate in base ai bisogni».

Abbiamo chiesto a Laura Melis se oggi si sentisse al posto giusto e nel momento giusto, col lavoro giusto e i sogni professionali realizzati: «Non sono certa di essere nel posto giusto al momento giusto – risponde –, di strada per raggiungere quelli che sono i miei obiettivi ce n’è ancora tantissima da fare. L’unica certezza è che, indipendentemente da come andranno le cose, questo progetto mi sta arricchendo moltissimo, sia dal punto di vista umano che professionale e so per certo che questa esperienza maturata mi sarà utile nella vita perché mi sta permettendo di acquisire consapevolezza dei miei punti di forza e di debolezza, spingendomi a fare meglio, a dare il massimo, a conoscermi profondamente, imparando dagli errori».

 

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A tu per tu con Maria Agostina Cabiddu. I diritti vanno conquistati e difesi

di Rosanna Agnese Mesina.

Dottoressa Cabiddu potrebbe spiegarci cosa significa essere costituzionalista e qual è stato il suo percorso per diventarlo?

Ho iniziato a occuparmi di diritto costituzionale dopo la laurea. Inizialmente volevo fare il magistrato, poi ho accantonato l’idea, anche perché l’ho visto come un lavoro ripetitivo, di tipo impiegatizio e quindi ho iniziato a scrivere e a studiare. Ho fatto il dottorato di ricerca, il presidente di commissione era Gustavo Zagrebelsky, che poi sarebbe diventato giudice della Corte Costituzionale.

Diritto costituzionale è stato un amore successivo. Dopo tutto il cursus honorum, non risparmiandomi in niente, sono diventata idonea per l’associazione dei costituzionalisti e in seguito ordinario al Politecnico di Milano dove sono riuscita a far inserire nel programma di studi un esame di Istituzioni di Diritto pubblico che comprende anche Diritto costituzionale, perché ritengo che senza la sua conoscenza sia difficile lo studio del Diritto amministrativo.

Insomma, un percorso casuale, volendo, ma evidentemente toccava le mie corde.

Nel suo percorso formativo e lavorativo il fatto di essere una donna o di provenire dalla Sardegna le ha procurato difficoltà o qualche discriminazione?

Nessuna difficoltà, anzi, devo dire che il mio professore è stato una persona che non mi ha mai posto dei limiti, non ha mai domandato cosa facesse mio padre o da dove venissero i miei genitori, né si è fatto condizionare da altri vincoli. Come donna non ho mai percepito un disvalore, forse dovuto anche al fatto che non ho avuto figli, perché il dovermi dedicare alla famiglia avrebbe forse comportato una minore attenzione verso la professione.

Forse non ho mai percepito nulla anche per via del mio carattere: sono infatti refrattaria a qualunque condizionamento, e quando qualcuno ci prova faccio finta di non capire, o smorzo con una battuta. Una volta, ad esempio, mi hanno detto: «Ma tu sei una del sud?». «No – ho risposto –, sono occidentale e vengo dalla Sardegna». Oppure: «Ma tu sei una donna». «E allora? Vuol dire che sono meglio di te!». Rispondere a tono al momento giusto e difendersi in maniera adeguata è importante. Le donne spesso rispondono con eccesso di legittima difesa; occorre difendersi a livello giusto, non bisogna replicare con una cannonata a chi ti dà uno schiaffo. Questa cosa l’ho appresa da mia madre che diceva “tene e iscappa”, ossia trattieni il buono e lascia correre quello che non vale la pena di trattenere.

Bellezza. Per un sistema nazionale. Conosciamo meglio il suo libro.

È un libro che parla del rapporto tra patrimonio culturale immateriale, come ad esempio il nostro canto a tenore, e la qualità della vita delle persone. Nasce da un’idea che mi è venuta al tempo del Covid, quando un medico responsabile della terapia intensiva aveva preso numerose opere dall’Accademia Carrara, il museo di Bergamo, e le aveva esposte in ospedale dicendo che anche quella era una terapia, perché i malati avevano bisogno di trovare sollievo alzando lo sguardo verso quelle opere. Così ho pensato a un collegamento tra qualità della vita e patrimonio culturale, cercando di trovare se nella nostra Costituzione ci fosse un fondamento per un diritto alla bellezza, diritto universale per tutti, anche là dove regna il degrado.

Bellezza non vuol dire avere un Caravaggio in casa, magari nascosto. L’arte e la bellezza sono legati allo sviluppo della persona, non a un qualcosa per fare business. A me interessa l’aspetto della qualità della vita, per questo ritengo che la prima cosa da fare per educare i ragazzi alla bellezza sia far capire la differenza tra il “mi piace” e il dire “è bello”. Per arrivare a dire “è bello” è necessario conoscere il percorso che c’è, ad esempio, dietro un’opera d’arte. Solo se conosci come l’artista ci è arrivato puoi apprezzarlo e dire che è bello. Quando le opere scandalizzano vuol dire che non se ne è capito il valore. Anche ne I cento passi si legge che Peppino Impastato, guardando con un amico verso la Conca d’oro, verso lo sviluppo edilizio incontrollato, afferma che quelle costruzioni fanno schifo, che hanno degli infissi orrendi in allumino, poi però le persone ci vanno a vivere, ci mettono i fiori, le tendine e lentamente ci si abitua al brutto. Ci si abitua al brutto però bisogna educarsi e abituarsi al bello.

Nell’idea di bene culturale non c’è quindi l’idea di appropriazione quanto di fruizione, cioè di un godimento che ti aiuta a vivere meglio. Se tu hai un bene materiale da consumare e lo consumi tu, non ce n’è per gli altri. La cultura, invece, non è un bene consumabile, anzi, più è diffusa meglio è. Purtroppo per la mancata fruizione sono andate perdute molte tradizioni.

Un suo scritto è stato scelto come traccia d’esame per la maturità: che effetto le ha fatto e cosa avrebbero dovuto esprimere i candidati che l’hanno scelta?

La traccia d’esame è stata presa da un articolo che ho scritto per la rivista dell’associazione dei costituzionalisti, e che mi era stato richiesto dal presidente Gustavo Zagrebelsky.

È stata una soddisfazione ovviamente inaspettata. Ritengo non sia stata una traccia facile, anche perché non so come nelle scuole si insegni l’educazione civica.

Penso che oggi ai giovani manchi la cultura dei diritti: non hanno la percezione che questi sono un qualcosa che esiste in natura e nessuno li può togliere. Ma i diritti vanno conquistati e difesi. Oggi non ci sono più manifestazioni di ragazzi che protestano insieme per i loro diritti; al contrario, ne conosco diversi che accettano di fare stage non pagati non una, ma tantissime volte. Forse lo fanno perché dietro ci sono le famiglie che provvedono a tutto, invece dovrebbero insegnare loro a curare i loro diritti e a difenderli. Quando, poi, questi giovani vanno all’estero perché qui non sono ben retribuiti, sbagliano perché stanno tradendo chi li ha formati. Invece si dovrebbero unire per far valere i loro diritti qui, ma loro agiscono come individui singoli, dimenticando che le persone sono fatte di socialità. Se si combatte insieme, forse le cose possono cambiare! Ai giovani manca la consapevolezza dei loro diritti e spesso non parlano di problemi seri. È vero che oggi non ci sono più tante associazioni come c’erano prima e mancano anche molti punti di riferimento: oggi gli esempi sono improvvise fortune come il calciatore o la velina. Non esiste più l’ascensore sociale che prima garantiva la scuola. Le famiglie in questo hanno grandi responsabilità.

Un consiglio alle nuove generazioni?

Ciascuno dovrebbe piano piano capire qual è il proprio percorso, coltivare il proprio sogno, anche se poi la vita ti porta altrove. Però se ti impegni, se fai dei sacrifici, raggiungi il traguardo.

Lisa Moi

Filigrana d’autore. Lisa Moi

di Gian Luisa Carracoi.

La sua bottega è luogo narrante dove abili mani disegnano singolari connubi di filigrana; dove la sapienza dell’artigiano e dell’artista si coniugano in una maestria che sa di tradizione e di estro creativo

Lisa Moi, classe 1980, padre ogliastrino e madre veneta. Oggi, moglie e mamma. Dopo la maturità in ragioneria, ha frequentato per due anni la scuola d’arte orafa a Vicenza, luogo natio, e sempre nella stessa città ha lavorato per circa un anno e mezzo. Successivamente ha proseguito il suo percorso nel laboratorio avviato dai suoi genitori nel 1984 a Bari Sardo, dopo tre anni dal loro rientro in Ogliastra a seguito di una lunga esperienza formativa e lavorativa. Suo padre era emigrato da ragazzino nella città palladiana, luogo in cui l’arte orafa affonda le radici nel lontano Medioevo, e lì ha studiato acquisendo il titolo di “maestro d’arte orafa”.

Lisa è figlia d’arte. Ha lavorato per vent’anni fianco a fianco con papà Giancarlo e mamma Carla, modellista, approfondendo la conoscenza della filigrana. «Inizialmente essa mi sembrava una cosa relegata al passato remoto – racconta –, fuori moda. Con il passare del tempo, vivendo in Sardegna, ho potuto capire che la filigrana non era solamente sinonimo di tradizione, ma poteva essere rivisitata in chiave moderna attraverso l’applicazione della tecnologia e del design. L’amore per l’arte orafa era dentro di me fin da bambina. All’età di cinque anni aiutavo già i miei genitori nel montaggio delle perline, poi pian piano negli anni delle elementari e medie si è un po’ placato, anche se le mie amiche ancora oggi ricordano le ricerche scolastiche che io facevo sugli oggetti della tradizione sarda».

All’interno dell’azienda Lisa ha potuto partecipare attivamente al progetto guidato dal Polaris di Cagliari per il quale sono stati selezionati solamente cinque orafi – fra questi uno è suo padre – i quali attraverso la collaborazione con un architetto di Milano sono riusciti a inventare una nuova tecnica. «La filigrana non viene più saldata – spiega Lisa – oppure ingabbiata all’interno di strutture particolari, ma è libera e si sostiene grazie all’ausilio della saldatura laser che non va a modificare la struttura molecolare del metallo perché lavora a crudo, ossia salda dove deve saldare, senza riscaldare tutto l’oggetto».

Da qui la conferma per Lisa che la filigrana non era solo relegata alla tradizione del passato, ma poteva ambire a molto di più. Ha continuato così a seguire i gioielli sardi, relativi all’abito tradizionale e alla tradizione in genere, di richiamo misto tra sacro e profano, utilizzati ancora oggi in particolari momenti della vita, come su coccu per il battesimo e lo spuligadentes per il matrimonio.

Dal 2020 però, con l’arrivo del Covid, la crisi economica ha messo in ginocchio tante attività artigiane e commerciali. «É stato un momento – ricorda – in cui anche la nostra produzione ha subito un arresto e non si capiva bene quale sarebbe stato il nostro futuro».

Ma lei non si è fatta abbattere. In quel momento di riflessione, ha maturato un’idea forte e ha capito ciò che voleva. Da qui la decisione di aprire al pubblico un’attività tutta sua. E così è stato. Il suo laboratorio, Filigrana d’autore dal marzo 2024 è presente in Corso Vittorio Emanuele, a Bari Sardo. Nell’arredamento della bottega ha messo tutta l’anima: dai ricami dipinti sui muri, che richiamano i pizzi della camicia tradizionale sarda, alla tavola realizzata a mano con il rame per riprendere parte del discorso che la più grande artigiana della parola in Sardegna, Grazia Deledda, pronunciò nel momento in cui, il 10 dicembre 1927, ritirò a Stoccolma il Nobel per la Letteratura. L’obbiettivo principale di ogni realizzazione di Lisa è la creazione di oggetti fatti a mano, inimitabili, marchiati e punzonati che fanno sì che il prodotto finale sia realmente un’opera d’arte unica. Tra i suoi lavori anche il restauro e la trasformazione dell’oro vecchio.

«Negli anni mi sono resa conto che la filigrana ha subito un maltrattamento da parte dei consumatori e anche dei commercianti – fa notare l’orafa ogliastrina –. Oggetti come la fede sarda, che dovrebbe rappresentare un gioiello dal forte valore simbolico e identitario, è stato invece declassato a causa di una indiscriminata produzione di massa. Ciò che invece dirige il mio lavoro è il desiderio di coniugare le richieste del cliente, che possono essere le più disparate, con quella che è la tradizione della nostra terra. Nel caso dell’anello di fidanzamento che ho realizzato quest’estate per un giovane bariese come dono per la sua ragazza di madre lingua inglese, ho creato un connubio tra Inghilterra e Sardegna, perché questo era il suo desiderio. Siamo partiti dall’anello iconico di fidanzamento inglese, quello alla Kate, e ho riprodotto lo stesso tipo di design, però al posto dei diamanti abbiamo scelto di inserire intorno allo zaffiro una corona di grani che richiamasse la fede sarda, simbolo di abbondanza e prosperità».

Per stimolare la curiosità dei clienti, Lisa ha inoltre avuto la brillante idea di creare un laboratorio senza muri, proprio come nelle antiche botteghe, per mostrare apertamente i suoi strumenti di lavoro e invitare i clienti a osservarla durante la realizzazione dei gioielli. Il lavoro è partito bene e nei prossimi anni le piacerebbe aprirsi a nuove esperienze per raccontare la filigrana a una clientela sempre più vasta.

Giardinieri

Giardini d’autore in Ogliastra

di Fabiana Carta.

Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis, di Baueni, artigiani e artisti del verde

I primi passi in questo mondo dipinto di verde cominciano nei primi anni Settanta con babbo Luigi. Poi, i semi sparsi qua e là hanno attecchito anni dopo, anche sui suoi figli: Giuseppe, Giorgio e Patrizia Foddis. I ricordi più vecchi, al profumo di fiori e piante, sono legati a un villaggio turistico vicino al mare. La struttura aveva chiuso i battenti, ma il verde continuava a essere curato. «Nostro padre ci portava con sé, giocavamo insieme ai figli del guardiano, ma allo stesso tempo eravamo spettatori di tutti i lavori di giardinaggio – ricordano Giuseppe e Giorgio – lo abbiamo sempre seguito e accompagnato nei suoi cantieri, anche quando siamo cresciuti un po’. Ci siamo ritrovati a lavorare in questo mondo senza neanche accorgercene».

Una scelta che è fluita in modo naturale. Nel passaggio dalle scuole medie alle superiori, ricordano la proposta di scegliere l’Istituto Agrario fatta da babbo Luigi, lanciata come un piccolo suggerimento. Sfumato. «Non l’abbiamo colto. A 13 anni non pensi che tuo padre ti suggerisca una via per prepararti al lavoro, a quell’età non ci pensi proprio che quella scelta ci sarebbe potuta servire un giorno. Tant’è che io mi sono iscritto alla Ragioneria», ricorda Giuseppe.

A 16 anni decide di fermarsi perché non sembra sentirsi a suo agio fra diritto ed economia aziendale, così lascia la scuola per andare a lavorare con suo padre. Dopo due anni torna sui banchi a prendere il diploma, però, dopo tutte le stagioni e le pause dalla scuola passate ad affiancare babbo Luigi, a quel punto la direzione era chiara e definitiva. «Da bambini e ragazzini non ci faceva lavorare sul serio, però un giorno guardavi, un giorno gli passavi un rastrello, un giorno imparavi davvero. All’inizio non l’abbiamo visto come un lavoro, era solo un andare a fargli compagnia», raccontano.

Sia Giorgio che Giuseppe si specializzano in centri di formazione professionale fuori dalla Sardegna, uno a Bologna e l’altro a Monza, alla scuola agraria del Parco, dove studia arboricoltura. Patrizia, la sorella minore, ha in testa altri progetti che non prevedono fiori e piante, infatti dopo gli studi classici si laurea alla facoltà di Scienze Politiche sognando un futuro nelle relazioni internazionali. Da bambina ricorda alcuni momenti trascorsi con sua madre, nel negozio di piante aperto nel 1988, insieme alla grande collezione di libri sul giardinaggio sistemati in una libreria dietro i vasi esposti. «Il mio professore delle medie mi aveva consigliato di iscrivermi all’Istituto Agrario di Sassari, conosceva la mia famiglia. Non l’ho ascoltato perché avevo altre idee. Alla fine del mio percorso di studi ho fatto alcune esperienze, ma mi sono resa conto di non riuscire a stare lontano dal luogo di nascita e stando qui sarebbe stato molto difficile fare qualcosa inerente alle relazioni internazionali», racconta Patrizia.

Le piante sono un destino di famiglia. Così, dopo un lungo giro, torna a Santa Maria Navarrese e prende in mano il vecchio negozio di famiglia, rinnovandolo. Oggi lei è il centro dell’azienda, si occupa della contabilità, di allestimenti per matrimoni e segue il negozio. «Da quando sono tornata ho iniziato a lavorare anche il fiore reciso, ho fatto un corso di un anno nella scuola Federfiori a Vigevano e ho capito che questo lavoro mi piace molto. Soprattutto quando mi dedico agli allestimenti. Non mi dispiacerebbe approfondire gli studi che riguardano il giardinaggio, per imparare a progettare terrazze, il verde verticale, aiutando i miei fratelli nel lavoro», spiega.

Patrizia ha ereditato da suo padre il senso del gusto, dell’estetica, l’attenzione per i dettagli. Dai primi anni 2000, quando hanno iniziato ufficialmente a fare il mestiere di giardinieri, si sono fatti strada in questo settore trovando un loro stile personale e inconfondibile. Come dei pittori, lasciano la firma in ogni spazio verde. «Lavoriamo sia per abitazioni private che per strutture ricettive, villaggi e alberghi, in giro per tutta l’Ogliastra e a volte anche in altre zone della Sardegna. Abbiamo tantissime richieste, durante l’estate il lavoro diventa molto frenetico», spiegano. Così frenetico da non riuscire quasi più a cogliere il lato poetico di questo mestiere, così frenetico da non avere il tempo di contemplare la bellezza di fiori e piante. «Ricordo la frase di un cliente – dice Giuseppe –: «Che bello, voi lavorate con le piante, con degli esseri viventi». È vero, ma potrei apprezzare di più questo aspetto se potessi lavorare senza l’affanno di dover seguire tanti cantieri. D’estate la poesia quasi scompare, lavori come una macchina. Nella nostra zona si sente la mancanza di professionisti in questo settore, le richieste sono davvero tante. Abbiamo un dipendente fisso per tutto l’anno e due o tre da assumere durante la stagione estiva. Cerchiamo di dividerci».

Il lavoro del giardiniere potrebbe assomigliare a quello di un artista che deve creare la scenografia perfetta: si parte dalla visita al cantiere e da uno sguardo al terreno, dal contesto geografico, dal tipo di struttura, si immagina cosa “costruire”. Si scelgono i colori per la tela, si decide dove applicarli. Giuseppe e Giorgio non fanno progetti su carta – e questo rende il tutto ancora più difficile –, ogni idea si sviluppa nella loro testa, immaginando e proiettando nel tempo, in quel determinato luogo, fiori e piante. «Quando dobbiamo fare un nuovo lavoro chiediamo al cliente massima fiducia, dove è possibile. Osserviamo il terreno nudo e in base il contesto ci facciamo una prima idea sul tipo di piante da disporre, sul come disporle, pensando sempre anche al loro sviluppo. Ci dobbiamo immaginare quel giardino da “adulto”, con la nostra impronta», raccontano. E poi c’è la cura continua, lo scorrere del tempo e delle stagioni. L’inverno è la stagione più rilassante, il lavoro si fa lento, segue i ritmi della natura. Si può avere il lusso di dedicarsi solo a un olivastro millenario, abbandonato da decenni, cuore a cuore, per rimetterlo in sesto. «Così ho il tempo di girarmi con soddisfazione, osservare il lavoro che ho fatto, e sentirmi bene», conclude Giuseppe.