In breve:

Volti e persone

Bittuleri

Quando la casa è un’Opera d’arte

di Fabiana Carta.

Marco Bittuleri, classe 1979, è il fondatore di Opera, azienda nata in Ogliastra nel 2009 che progetta, costruisce e ristruttura edifici utilizzando pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, con un approccio bioclimatico

Un grande pensiero fisso, quasi un’ossessione. Il bisogno innato di progettare e costruire abitazioni, fin da bambino. Una sorta di attrazione inspiegabile lo spingeva – e lo spinge ancora oggi – a fermarsi a osservare le facciate degli edifici e le linee, a immaginare, sommare, calcolare. La differenza la fa sempre lo sguardo, di chi una scatola non è solo una scatola, se ne sovrapponi due diventano una casa, di chi nel gioco a incastro del tetris vede le proporzioni identiche alle case modulari. «Ho sempre avuto il pallino della casa, casa in quanto elemento finito. Ricordo un viaggio a Barcellona da ragazzino, con gli amici. Trascorrevo la maggior parte del tempo a scattare foto a tutti gli edifici moderni che incontravo, per me erano qualcosa di eccezionale», racconta Marco Bittuleri, 43 anni di Arzana, fondatore dell’azienda innovativa Opera. Non parliamo semplicemente d’impresa, ma del sogno di costruire qualcosa per le precise esigenze della persona, secondo principi che s’ispirano alla natura e al benessere fisico e spirituale.

La scelta della scuola superiore va verso quella direzione: Marco frequenta l’Istituto tecnico per geometri di Lanusei. «Non ero uno studente modello – precisa –, sono stato bocciato. Così per un periodo ho lasciato gli studi e ho iniziato a fare il manovale, ma ho capito che quel lavoro non mi piaceva, sentivo sempre forte il bisogno di progettare, creare qualcosa di mio. Dopo due anni sono tornato a scuola per prendermi il diploma, ho fatto le serali. La mattina andavo a lavorare nello studio di Valter Bortolin, ingegnere e mio professore di costruzioni e topografia. Con lui ho imparato a progettare. Mentre la sera studiavo». Dopo qualche anno comincia a lavorare per la Serit Lavori, azienda con sede a Roma ma operante in Sardegna nel settore dell’edilizia pubblica, dove si occupa di cantieristica e contabilità lavori, all’inizio con il ruolo di preposto di cantiere, poi di direttore tecnico di cantiere per il mercato sardo. «Ci siamo occupati anche dell’ampliamento della scuola dove ho studiato, è stato emozionante. Ma il mio chiodo fisso continuava a essere sempre lo stesso», ricorda Marco.

È dagli anni 2000 che sente parlare di case in legno e si accorge di una predisposizione del mercato verso la prefabbricazione, sfogliando riviste di settore nello studio in cui lavorava. «Quando ho iniziato a parlare della mia idea con qualcuno, in Ogliastra, nei primi tempi mi hanno preso per matto. Mi dicevano che non era percorribile, che non si sarebbe potuta realizzare mai. Poi, studiando per conto mio, ho approfondito la storia del Bauhaus, la scuola d’arte e di architettura più importante del ‘900, fondata dall’architetto Walter Gropius in Germania. Ho scoperto che la prefabbricazione esisteva già negli anni Trenta, era già un pallino di Gropius. Lì ho trovato finalmente qualcosa e qualcuno di concreto a cui ispirarmi», spiega.

Nel 2009 nasce Opera e la rivoluzione dell’abitare: le Bluehouse, edifici costruiti con pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, progettate con un approccio bioclimatico. Da Arzana al Trentino Alto Adige, la rivoluzione green di Marco Bittuleri sta incuriosendo anche il mercato europeo e americano. La filosofia è questa: allontanarsi dall’edilizia tradizionale e dalle colate di cemento per avvicinarsi a un concetto di casa che diventa modulare, su misura, in sintonia con il contesto e con materiale totalmente sostenibili, da vivere il tempo che stiamo su questa terra. «Ho cercato di trovare la soluzione per vivere in maniera dignitosa, – spiega Marco – e dopo dovremmo avere la possibilità di poter smontare tutto e lasciare il territorio, la natura, così come l’abbiamo trovata prima di costruirci sopra. Il problema delle case invendute nei nostri paesi è proprio questo: demolirle costa una fortuna, così le persone costruiscono fuori dai paesi, e all’interno restano mezzo vuoti, con quattro gatti e case così grandi che ospiterebbero venti persone».

I concetti di bello o di brutto sono annullati, non esistono. Esiste solo ciò che funziona e che è contestualizzato nel territorio, il design diventa qualcosa che deve assolvere a una finalità precisa. La casa diventa come un’automobile, da monitorare costantemente nei consumi e nei costi, come un “tagliando”. E i costi? «Noi tutti abbiamo l’abitudine a generalizzare il costo della casa, ma il costo della casa al metro quadro non esiste, è qualcosa che si fa solo per stabilire una vendita sul mercato. Chi la costruisce non può farlo attraverso un valore di mercato. Chi sceglie una Bluehouse è perché si è approcciato alla casa con sensibilità, perché ama quella tipologia costruttiva, per l’aspetto ecologico», spiega Marco.

Oggi Opera conta un team di oltre 15 persone, vanta numerosi riconoscimenti e progetti importanti. «Mi rendo conto che non posso essere il costruttore di tutti. Ho scelto di fare questo lavoro come una scelta di vita, lo faccio a modo mio e sono sicuro che là fuori c’è qualcuno che la pensa come me: è proprio a lui che devo pensare. Sono molto orgoglioso di tutte le soddisfazioni e i successi che stiamo raggiungendo, ma so che non sarò mai arrivato. Quella che voglio realizzare è sempre la casa più “bella”, e per me è sempre quella che dovrò fare domani. Lavorare in questo settore è difficilissimo, ma devo portare avanti il mio sogno», conclude. Ecco qual era la missione di quel bambino che osservava le facciate degli edifici: tradurre le esigenze delle persone attraverso le linee, mettere insieme i numeri e il disegno.

Samuele Usala

DeUs Apicultura. L’Olimpo del miele

di Claudia Carta.
Stregato dalle api. «Il loro modo di vivere ha qualcosa di incredibile, sembra quasi fantastico! La loro struttura, l’organizzazione, la ricerca del cibo. Lavorano instancabilmente tutto il giorno, orchestrate dall’ape regina che gestisce in modo impeccabile l’intero alveare. Ogni ape ha il suo compito: operaie, bottinatrici, spazzine, fuchi. Pensa che in un alveare in piena produzione sono presenti circa centomila api!».

Si illumina di meraviglia Samuele Usala, giovane imprenditore di Escalaplano, agrotecnico e operatore agro ambientale per formazione. Classe 1981, rivendica con orgoglio il diploma conseguito all’agrario di Muravera. Una passione, quella per l’apicoltura, che inizia a prendere corpo nel 2009. Allora gli alveari erano solo due. Sarà la strada giusta? Timori e perplessità accompagnano ogni nuovo inizio, ogni sfida. Ma Samuele ci crede. Al punto che gli alveari, oggi, sono un centinaio e la sorpresa degli esordi si è lentamente trasformata in convinzione e professionalità.

Ai piedi del monte Santa Vittoria e S’Accolla, in località Paullionas Taccu, un altipiano a 700 metri sul livello del mare, la sua azienda agricola si estende per circa 50 ettari, a sei chilometri da Escalaplano. È il regno di Samuele: «Siamo circondati da un territorio selvaggio, aspro, del tutto estraneo a coltivazioni intensive – spiega –. Condizioni che hanno reso possibile la sopravvivenza di un ecosistema mediterraneo dalle caratteristiche uniche, ricco di una grande varietà di piante ed erbe officinali spontanee, le stesse che inebriano e impregnano di inconfondibili profumi i nostri prodotti esclusivi».

Un’azienda agricola completa, sul territorio già da dodici anni. Era il 2011. Negli intenti di Samuele una grande visione: «Portare avanti e migliorare l’attività intrapresa da mio padre, negli anni Ottanta, in continuità con quella di mio nonno e mio bisnonno. L’intento era chiaramente quello di tramandare valori e saperi della tradizione».

Intento e visione si concretizzano in una realtà lavorativa oggi affermata, nella quale si allevano ovini, bovini, suini e animali da cortile per la produzione di carni scelte. I risultati parlano di latte, olio e vini di ottima qualità. I prodotti ottenuti e trasformati in quantità limitata, vengono successivamente venduti negli spazi aziendali a chilometro zero, nei mercati di “Campagna amica” o direttamente recapitati a domicilio.

Se è vero che DeUs Apicoltura nasce un po’ per gioco – come Samuele racconta – è altrettanto vero che la formazione e lo studio sono roba seria: il giovane imprenditore escalaplanese frequenta i corsi regionali di apicoltura di primo e secondo livello e quelli di allevamento api regine. Anche per questo l’eccellenza della sua azienda – che gestisce insieme alla moglie Carla e ai fratelli Marco e Daniele – è rappresentata dalla produzione del miele di pregiate varietà: millefiori, mirto, corbezzolo, rosmarino, asfodelo, senza dimenticare i mieli aromatizzati, quali Abba ‘e meli, la grappa sarda aromatizzata al miele.

«La produzione di miele per alveare – fa notare Samuele – si aggira intorno ai 35/40 chilogrammi in condizioni climatiche buone. C’è da dire che negli ultimi anni la siccità non ci ha aiutato tantissimo.

Purtroppo il cambiamento climatico e i pesticidi non sono di grande aiuto: cerchiamo di tenere in vita le famiglie facendo grandi sacrifici, soprattutto economici e, cosa molto importante di cui andiamo orgogliosi, con metodi biologici per cercare di ottenere un prodotto di altissima qualità».

E la qualità, si sa, paga sempre. Fioccano premi e riconoscimenti a livello regionale e nazionale: «Sì, già a partire dal 2014 abbiamo ricevuto numerose gratificazioni per il lavoro che facciamo – racconta –. Presentandoci al concorso regionale di Montevecchio, siamo stati premiati per il miglior miele di corbezzolo e miele multiflora. Al Sardinia Food Awards siamo risultati vincitori per la “categoria miele”, nel 2021, e “per innovazione di prodotto in apicoltura”, nel 2022. Sempre in quell’anno, grazie a tutti i like e le recensioni sui social, ci hanno premiati come “eccellenza italiana”. Infine, quest’anno, a sorpresa devo dire, all’Italy Food Arwards di Milano, siamo risultati vincitori di categoria per i prodotti tipici regionali».

Sarà perché lo sguardo di Samuele spazia a 360 gradi, sarà perché la voglia di migliorare, di affinarsi, di crescere non è relegata negli confini territoriali, sta di fatto che DeUs Apicoltura guarda avanti, sapendo che sinergia ed esperienza possono portare lontano: «Mi piace collaborare con altre aziende isolane – sottolinea Usala – ma anche con quelle della Penisola: due anni fa agli Oscar Green di Coldiretti siamo arrivati in finale con Sinergica, una birra al miele prodotta insieme al birrificio Arbareska di Bruno Ghiani di Isili. A Bitti, con l’azienda di Andrea Chirra, Santu Jorgi, abbiamo prodotto un’altra birra, Tzia tua, realizzata con le bacche di mirto raccolte sul nostro territorio». Oltre mare, la collaborazione arriva a Padova, dove il miele sardo unito alla propoli e altri prodotti locali danno vita a squisite caramelle. Scendendo a Sud, all’ombra del Vesuvio, nascono altri prodotti, come le creme per il viso e le mani, il burro per le labbra e altri preparati per la cosmesi.

Il futuro è già qui. Samuele è pronto a scriverlo: «Le idee sono tante. La prima è certamente quella di realizzare un piccolo agriturismo dove far degustare i prodotti direttamente in azienda e far vivere agli ospiti il nostro lavoro e il nostro territorio».

Fungaia

La Fungaia: molto più di una fattoria didattica

di Fabiana Carta.

Nelle campagne di Lotzorai, nel 2010, dalla passione per la natura nasce un’azienda agricola che si occupa di coltivazione di funghi e ortaggi. Nel 2013 parte anche il sogno di aprire una fattoria didattica, un centro educativo adatto a far scoprire i segreti della natura e degli animali, le attività della fattoria e l’origine dei prodotti alimentari. Monica Arzu ci racconta il suo progetto

Un diploma all’istituto tecnico commerciale, una scrivania, un ufficio.

Sarebbe stata questa la sua vita, se non avesse scelto con coraggio un’altra strada. L’idea di stare chiusa per tante ore fra quattro mura non può essere entusiasmante quando la natura e gli animali sono tutta la tua vita, ciò che ti rende felice.

Monica Arzu, 47 anni di Lotzorai, nel 2010 ha deciso di investire in un progetto che parte dalla terra: un vecchio vigneto danneggiato da un incendio diventa il luogo perfetto per installare delle serre per la coltivazione di funghi e ortaggi, accogliere piante d’ulivo, alberi da frutto e piante aromatiche. «Nel 2012 ho frequentato il corso di operatore di fattorie didattiche – racconta Monica – e nel 2013 ho ottenuto l’iscrizione all’albo delle fattorie didattiche della Regione Sardegna, presupposto di partenza per l’attività. Così ho iniziato ad accogliere scuole, gruppi e famiglie alle quali, attraverso attività didattiche, offro la possibilità di avvicinarsi in modo pratico e non solo teorico al mondo agricolo. Obiettivo principale: formare nuove generazioni responsabili e consapevoli».

Una fattoria didattica immersa nel verde diventa un luogo in cui si impara a mangiare sano, a rispettare la natura, gli animali, gli insetti e tutto il mondo che ci circonda. L’azienda agricola si occupa principalmente della coltivazione di funghi, in particolare il Pleurotus Eryngii, noto a tutti con il nome di cardoncello, una varietà di funghi che cresce naturalmente nel Meridione nei mesi autunnali e primaverili, grazie alle temperature favorevoli. «Negli ultimi anni ho dovuto riscontrare danni alla produzione dovuti all’insorgere di malattie. La causa? Il cambiamento climatico, che porta con sé un forte innalzamento delle temperature e grandi sbalzi termici. Per questo motivo sto avviando la produzione anche di altre varietà di funghi più resistenti e di notevole importanza nutrizionale, come Shiitake, Pioppino, Pleurotus Djamor, Hericium, Black Pearl», spiega Arzu. Nella continua ricerca di metodi alternativi per l’abbattimento dei costi e il miglioramento delle condizioni ambientali, in seguito a uno studio realizzato in collaborazione con l’Università di Sassari, l’azienda agricola ha deciso di trasformare il substrato esausto di fungaia in ammendante composto misto con l’ausilio di lombrichi.

Nonostante la coltivazione dei funghi sia l’attività principale, in azienda si producono anche ortaggi, mettendo a dimora i semi a fine inverno in serra, trapiantandoli poi in primavera. «Il corso per operatore di fattoria didattica è stato una sorpresa – fa notare Monica – molto utile e per niente scontato. Ci hanno insegnato che l’essere umano apprende naturalmente facendo: perciò quando svolgo le attività didattiche cerco di coinvolgere continuamente attraverso attività manuali. Propongo dei laboratori sensoriali per la raccolta di funghi in serra, di erbe aromatiche o della frutta; cerco di stimolare l’apprendimento attraverso dei giochi, come la raccolta di funghi artificiali che riproducono quelli velenosi e commestibili, per imparare a riconoscerli. Laboratori creativi o di cucina, tutte attività che in maniera divertente e stimolante aiutano ad avvicinarsi a questo mondo».

Qualcuno fa ancora fatica a capire la differenza tra una fattoria didattica e uno zoo, per esempio. Non è un semplice luogo in cui andare a osservare gli animali, ma un vero e proprio centro educativo per far scoprire i segreti della natura, far conoscere le attività svolte in fattoria, la vita degli animali, l’origine dei prodotti alimentari, il mestiere dell’agricoltore, i lavori necessari a produrre gli alimenti di cui noi tutti ci nutriamo. «In Ogliastra la risposta è positiva – continua –, anche se si fa fatica a comprendere l’importanza di questi luoghi formativi. Vivendo in un paese turistico accolgo anche tante famiglie e gruppi di turisti stranieri, apprezzano molto i percorsi didattici, soprattutto quello sugli insetti. Ma, naturalmente, in azienda ho anche degli animali quali caprette nane, conigli, maiali, galline, oche, pappagalli, cani e gatti».

Monica gestisce da sola tutti gli impegni della Fungaia, ogni tanto, però, riceve l’aiuto di suo marito, dei figli, delle sue sorelle o dei genitori. «È un lavoro che mi impegna tanto in prima persona, ma avendo un andamento stagionale mi permette, per il momento, di non aver bisogno di un dipendente. Sono molto contenta di quello che faccio, in futuro vorrei intraprendere un corso di studi utile al mio lavoro», conclude.

Chissà come sarebbe stata la sua vita senza il silenzio della campagna, i suoi animali e senza il profumo di cisto e lavanda selvatica.

Pasticceria

Maria Vittoria Frare. La dolcezza è un’arte da tramandare

di Anna Piras.

Ricordi, emozioni, traguardi e speranze. Sono gli ingredienti migliori per raccontare la storia di Maria Vittoria e delle giovani pasticcere del suo laboratorio di Arbatax.
Originaria del Veneto, titolare nella frazione rivierasca della pasticceria “Maria Vittoria”, ci ha accolto nel suo laboratorio portandoci indietro nel tempo attraverso i suoi ricordi.
Le vicende familiari l’hanno portata a conoscere e ad amare la Sardegna e a sentirsi a casa sua nella nostra terra. La passione per l’arte dolciaria e l’insistenza dei suoi familiari l’hanno convinta ad aprire la pasticceria artigianale che col tempo si è affermata ed è diventata un’importante realtà lavorativa anche per delle giovani donne che lei stessa ha formato.
Seduta su uno sgabello, ha ripercorso i momenti più significativi della sua vita, raccontando il suo percorso di crescita, le esperienze che l’hanno vista impegnata, fin da bambina, nel lavoro.
Con gli occhi lucidi, velati di lacrime ha iniziato a parlare nel suo dialetto a ruota libera.

«Avrei preferito aiutare mia madre nei lavori di casa – racconta – ma i miei genitori mi spronavano sempre affinché fin da piccola imparassi un mestiere. Provengo da una famiglia numerosa, composta dai miei genitori e undici figli, sette femmine e quattro maschi. Mi chiamo Vittoria perché sono nata nel 1941, in tempo di guerra, e mio papà era convinto che avremmo vinto il conflitto, ma andò diversamente, così mio zio, mi chiamava sempre “Vittoria persa”! Andavo in panificio per imparare a panificare: ricordo che avevo solo nove anni e non arrivavo neanche al bancone mentre impastavo la mia prima rosetta. Spesso dovevo lavorare nell’orto, altre volte andavo ad aiutare mio padre nel negozio di alimentari o seguivo mia madre in casa nelle faccende».

Maria Vittoria, una volta sposata, ha vissuto tanti anni con suo marito nella centrale del Secondo Salto, ha cresciuto i suoi tre figli lì e vi ha trascorso felicemente il proprio tempo, intessendo tante relazioni significative con persone che le hanno dimostrato affetto, disponibilità e generosità. Ha fatto importanti esperienze di vita che le son servite nel corso degli anni.

«Ero la pasticcera dei bimbi che abitavano al Secondo Salto – continua –, preparavo le torte che loro stessi prenotavano, con giorni di anticipo, per darmi il tempo di procurarmi tutti gli ingredienti».

Il suo interesse per l’arte della pasticceria l’ha portata nei vari paesi della Sardegna per carpire dalle massaie i segreti delle ricette dei dolci tipici.

Racconta di aver iniziato a lavorare per aiutare una sua amica che da sola aveva difficoltà nel gestire impasti e decorazioni, le chiedeva spesso un aiuto e lei non si tirava indietro. Ha continuato a formarsi e, spesso, chi aveva accanto la spronava a credere maggiormente in se stessa e nelle proprie potenzialità. Il marito e i figli hanno sempre avuto tanta fiducia nelle sue risorse e hanno insistito affinché facesse di questo dono, di quest’arte, un vero e proprio mestiere.

Lo scorrere dei ricordi l’ha portata a raccontare quanto sia stato importante e prezioso imparare dagli altri: «Ciò che mi è stato tramandato – sottolinea – è stato prezioso per farmi crescere e mi ha fatto apprezzare la generosità dei sardi, il loro donare e donarsi agli altri, così, nelle cose di tutti i giorni, spontaneamente e gratuitamente. I sardi ti accolgono in casa loro, si prodigano per farti sentire a tuo agio, tengono moltissimo all’ospitalità. Questo aspetto mi ha colpita tanto».

All’età di sessant’anni Maria Vittoria ha aperto la pasticceria che nel quotidiano l’ha condotta ad affrontare tanti sacrifici, tante rinunce, ma anche a incrociare il suo destino e la sua vita con quella di tante persone.

E ringrazia Dio perché nella sua esperienza lavorativa ha così potuto restituire il bene ricevuto, insegnando a delle giovani donne il suo mestiere, trasmettendo loro tutto il suo sapere e la sua voglia di migliorare. Jennifer, Monia e Manuela: sono questi i nomi delle pasticcere che potranno lavorare con la consapevolezza di aver in mano delle competenze provenienti da più fonti.

«Siamo felici di stare bene nel nostro ambiente di lavoro – commentano – e siamo convinte che la dedizione e l’impegno di altre donne e di Maria Vittoria, che ci hanno trasmesso il loro sapere, ci accompagneranno sempre nel nostro percorso di crescita professionale. La pasticceria è una famiglia».

Effettivamente è una bella realtà che richiama la famiglia. Si respira un profumo intenso di dolci preparati con amore e nel laboratorio l’intesa tra loro è fatta di sguardi, battute, rispetto, indicazioni, consigli e risate, tante risate.

L’incontro tra la tradizione e l’innovazione porta fermento, entusiasmo e voglia di crescere. Questo passaggio di testimone fra donne di differenti età ha sempre permesso che le realtà lavorative artigianali potessero continuare a crescere e sarà così anche stavolta: Jennifer, Monia e Manuela sono «come figlie» per Maria Vittoria, coloro che con affetto e mille attenzioni la fanno sorridere. «Certe volte mi fanno sentire, a quasi ottantadue anni, prossima alla pensione – racconta sorridendo – e ogni tanto le spedisco a far dei corsi; poi le ritrovo che parlano e si scambiano idee, navigano sul computer e questo mi riempie di gioia. Il tempo è passato, le forze vanno e vengono e sento che il lavoro delle ragazze mi rende orgogliosa di loro e del loro impegno. Ci sono giorni nei quali non posso scendere in laboratorio, allora mi affaccio alla finestra della mia casa, proprio di fronte alle vetrine e telefono alle ragazze e, mentre parliamo, le vedo e sono tranquilla».

 

Caledonia

Un sogno chiamato Caledonia

di Fabiana Carta.

Quella di Marco e Chiara, due giovani di Ardali e Triei, è la storia di una partenza e di un ritorno. A novembre 2022 hanno aperto al centro del paese un tipico pub scozzese, una dichiarazione d’amore verso le terra che li ha accolti per cinque anni, ma è anche un regalo per tutta l’Ogliastra

L’altro giorno diluviava, i vetri delle finestre all’inglese erano tutti appannati. Dentro faceva molto caldo e il pub era pieno; i boccali di birra allineati sul bancone, la musica scozzese in sottofondo: tutto era perfetto, ogni cosa era come doveva essere. Ma non siamo a Edimburgo e questo non è un sogno da cui bisogna svegliarsi.

Marco Monni e Chiara Chironi, rispettivamente di 33 e 35 anni, hanno fatto una scelta inusuale: dopo cinque anni trascorsi in Scozia, per una combinazione di circostanze – o semplicemente perché era scritto nel loro destino, di questo ne sono convinti – scelgono di trasferirsi di nuovo nel paese d’origine. Di solito accade il contrario, partono per non tornare. Loro fanno di più, non solo scelgono di proseguire la loro vita nel paese delle ginestre, con un pizzico di follia aprono un pub scozzese lungo la via Carlo Alberto a Triei.

Marco e Chiara si conoscono dai tempi dell’asilo, frequentano le stesse scuole ed entrambi portano a casa un diploma Tecnico Commerciale. «Durante l’estate ho sempre lavorato nel campo della ristorazione, con grande passione. Per un periodo mi sono occupato di consegnare i prodotti ai ristoranti, in questo modo ho potuto conoscere anche quello che c’è dietro, ad esempio come si conservano, come sono classificati, ecc. Per tre anni ho preso il posto di mio fratello in un bar ad Ardali, durante l’anno del diploma», racconta Marco.

Chiara invece lavora in una pizzeria, poi come commessa, e infine decide di seguire una signora anziana del suo paese. Intanto tra lei e Marco scoppia l’amore. «Qui la situazione era morta, non avrei voluto fare quel lavoro tutta la vita. Così abbiamo iniziato a pensare al nostro futuro», spiega. Tutti siamo attratti da qualche posto nel mondo, senza un reale motivo, per un incanto irrazionale. Marco ha sempre avuto una passione smodata per l’Irlanda e ha sempre subito il fascino dei tipici pub, eppure il destino l’ha portato poco più a nord. «Mio fratello aveva deciso di partire un periodo per la capitale scozzese – ricorda Chiara – e dopo averci raccontato questa città, nel 2015 abbiamo deciso di partire. Lui intanto era già andato via. Non sarei mai voluta partire in una città enorme, venendo da Triei, un piccolo paese, temevo di non sentirmi a mio agio. Edimburgo è la capitale, ma sembra una cittadina».

Preparano i biglietti di sola andata e due valigie, alle famiglie dicono: «Partiamo all’avventura, non sappiamo cosa succederà, può essere che tra due settimane saremo di nuovo qui». Ma due settimane diventano cinque anni. Prima tappa Dublino, per una vacanza di cinque giorni, poi proseguono per la Scozia. Per loro è amore a prima vista. «Edimburgo è splendida, medievale, sembra di vivere in mezzo a vecchi castelli, ci sono tanti spazi verdi dentro la città, ti guardi intorno e vedi le montagne. Per Chiara l’unico problema è stato abituarsi al clima tipico, ci ha impiegato circa un anno!».

Dopo un periodo di assestamento trovano lavoro entrambi, lei in un hotel al centro della via più bella e suggestiva della Old Town, lui nel campo della ristorazione. La loro idea era restare a Edimburgo per almeno dieci o quindici anni, tanto che comprano casa. «Ma è arrivata la pandemia mondiale a modificare tutti i piani. Il posto in cui lavoravo ha chiuso – ricorda Marco –. Durante l’estate siamo rientrati in Ogliastra per staccare un po’, volevamo aspettare che il brutto periodo passasse, per poi ripartire. Una serie di eventi ci ha fatto cambiare direzione: la prima settimana di settembre abbiamo scoperto di aspettare un bambino e, sempre in quei giorni, ci hanno proposto di investire in un locale a Triei, che prima era una pizzeria d’asporto».

A Ottobre tornano a Edimburgo, ma scoprono che la situazione è peggiorata, la scelta di tornare a casa diventa definitiva. Il piccolo locale è poco più che un garage, ha bisogno di lavori di ristrutturazione, la missione dei ragazzi è trasformarlo in un tipico pub scozzese. Marco si fa aiutare dai suoi fratelli, Simone lo aiuta con le preparazioni in cucina e Marcello con i lavori manuali, il resto è frutto della sua buona volontà: «Ho costruito il bancone, le mensole, le panche, le cornici dei quadretti, poi ho voluto aggiungere le travi di ginepro per richiamare lo stile sardo in mezzo a tutta questa Scozia!».

Ne viene fuori un gioiellino, curato nei minimi dettagli, che prende il nome di Caledonia Pub, il nome che gli antichi romani avevano attribuito alla Scozia. L’atmosfera che si respira all’interno è magica, un luogo fuori dal tempo. Marco e Chiara hanno deciso di non rompere del tutto con la tradizione sarda, nel menu si possono trovare alcuni piatti tipici, come le tzipulas di Triei e una selezione di vini dell’isola. Ogni venerdì, per gli amanti del cibo anglosassone, propongono il fish and cips, con il pesce impanato nella tipica pastella alla birra, e in futuro potrebbe arrivare anche un piatto tipico scozzese, l’Haggis, un insaccato a base di interiora di pecora. «Vorrei portare anche la loro birra artigianale, ma è molto complicato. Ricordo che nelle passeggiate notturne a Edimburgo sentivo nell’aria un profumo che sembrava pop corn misto a malto, era l’odore che proveniva dai numerosi birrifici. Mentre pioviggina sei accompagnato da questi profumi, fa tutto parte del fascino della città», afferma Marco.

Gli abitanti del paese sembravano un po’ scettici all’idea della nuova apertura e le persone anziane non avevano ben chiaro cosa fosse un pub, ma Caledonia è un locale soprattutto per una clientela giovane, e sembra stia avendo grande successo. «Siamo felici di aver investito nella nostra terra, resta solo una leggera nostalgia della Scozia. Ci manca l’ambiente, potevi vivere tutte le stagioni: d’estate era un tripudio di verde, l’autunno un tappeto di foglie arancioni, in inverno c’era la neve. Qui a Triei è un’altra vita, è una piccola oasi di pace, un angolo di paradiso tranquillo. Non succede niente, ma forse dopo i trent’anni va bene così!», concludono.

Le Scimmiette

Orizzonte Giovani. Le Scimmiette.

di Federica Cabras.

Restare nei propri paesi d’origine, questi bellissimi borghi ogliastrini ancora non abbastanza valorizzati, è una sfida a cui tanti ragazzi e ragazze non si prestano. Sarà che quando si è giovani si vede solo la bellezza delle metropoli che non dormono mai – quelle dove qualche luce è sempre accesa a ricordare la vita che scorre, frenetica e vivace –, mentre nei nostri paesini arroccati sulle montagne o affacciati sul mare si respira un po’, mi si conceda il termine, di quiete e serenità. Sarà che il giardino del vicino è sempre più verde e la voglia di scappare dai territori d’origine, di solito, è inversamente proporzionale all’età che si ha.

E sarà anche, diciamoci la schietta verità, un po’ la pressione della società, che ti vuole fuori a fare grandi cose – Sì, ma fuori dove? Fuori come? A fare quali grandi cose? –, come se chi resta qui non potesse realizzarsi, diventare ciò che vuole, trovare la felicità. Essere quel che vuole, nel senso più completo che esiste.

C’è però qualcuno che ancora – e sia ringraziato il cielo – crede nella potenzialità di quest’isola felice chiamata Ogliastra, dove sì, non ci sono i grattacieli, le metropolitane e dove a un certo punto tutto si spegne, come imbrigliato dalla notte che vuole tutti a riposo, ma dove le albe e i tramonti hanno un nonsoché di magico. E dove guardare il cielo – pulito, azzurro – dà una sensazione di pace.

Sono giovani, caparbie e hanno creato da zero un’attività che profuma di voglia di fare del proprio meglio con impegno: Le Scimmiette street food, nata dal coraggio e dalla tenacia della 25enne Silvia Virde e della 23enne Deborah Manca – l’una ogliastrina doc e l’altra nata sulcitana ma adottata dalla terra della longevità –, è una paninoteca ambulante che tratta prodotti locali. Le due si spostano, a seconda delle esigenze e dal mercato, rimanendo perlopiù nel territorio villagrandese-villanovese a bordo della loro paninoteca ambulante.

«Si può dire che è il nostro mondo. Entrambe – raccontano – abbiamo sempre lavorato nel campo della ristorazione». Insomma, non un universo del tutto nuovo per le socie che, ambedue senza finire gli studi, hanno frequentato per alcuni anni l’Alberghiero: «Ci siamo rimboccate presto le maniche e abbiamo iniziato a lavorare».

In un mondo, quello della ristorazione, dove non ci sono orari, né feste, dove si lavora sodo sempre e si corrono le maratone, le due si sono fatte le ossa per anni prima di decidersi di buttarsi in qualcosa di proprio. In un sogno, appunto, diventato realtà soltanto recentemente.

«Era il 2019 quando l’idea di aprire quest’attività ha fatto capolino nelle nostre teste – spiegano – ma poi una nuova proposta di lavoro ha messo tutto in stand-by per un po’».

Ma non ci mette molto, questa scintilla, a tornare, più forte e prorompente di prima. «Abbiamo riaperto quel famoso cassetto dove era chiuso il nostro sogno dopo tre anni. Eravamo stanche della routine, di non fare quel passo in avanti a cui tanto avevamo pensato».

Ed ecco arrivare il giorno che dà inizio a tutto. «Nonostante sapessimo della difficoltà di aprire un’attività in questi tempi così difficoltosi sotto ogni punto di vista, il primo maggio del 2022 abbiamo organizzato l’inaugurazione della nostra attività». Obiettivo? Farsi conoscere dalle persone dei dintorni, dalla popolazione dei paesi limitrofi e non solo. «Il primo giorno è andato a gonfie vele, oltre ogni aspettativa» sono le loro parole. «Abbiamo lavorato più di quanto ci aspettassimo. Ma, a dirla tutta, non possiamo lamentarci nemmeno di come sia andata in seguito.

Sì, chiariscono le due, non tutto è rose e fiori: esistono alti e bassi, ovviamente, ma bisogna affrontare ogni nuova giornata di lavoro come una sfida, come un modo per migliorarsi sempre, per avere ogni nuovo dì una marcia in più.

L’importante? Be’, avere sempre il sorriso – chiariscono.

Un menu bello pieno, interessante anche per la presenza di prodotti locali, la voglia di mettersi sempre in gioco e una grande versatilità: ecco gli ingredienti del successo.

«Per poter lavorare bene in questo campo crediamo sia importante saper stare a contatto con il pubblico e cercare di soddisfare ogni bisogno dei clienti, accettando qualsiasi giudizio possa arrivare». E, quando si parla di consigli da dare ai coetanei, sono perentorie: «La nostra volontà è cercare di portare nei giovani una consapevolezza importante: si può nascere e crescere dal niente, solo animati dalla propria forza. Abbiamo un vasto territorio da sfruttare, da cercare di far brillare. Ragazzi – continuano – se avete nuove idee, coltivatele! Serve coraggio, ma le cose, seppur non semplici, non sono mai impossibili. Si deve partire, avere la caparbietà di rincorrere ciò che si desidera».

Ed è proprio questo il concetto che, più di tutti, riesce a commuovere e a muovere le masse: buttarsi non vuol dire non rischiare, e ci mancherebbe che si dica il contrario, ma vuol dire cercare di raggiungere vette inesplorate, altezze vertiginose dalle quali il mondo di giù si vede con più chiarezza, con colori più accesi, con soddisfazione. Vuol dire raggiungere una consapevolezza importante: quella sul proprio valore, sull’importanza del superamento dei limiti e sull’importanza di rincorrere sempre quel che si desidera.

E che importa se ci si sbucciano le ginocchia? Basta ripartire. Con coraggio. Come affermano le ragazze de Le Scimmiette.