Volti e persone
Maria Biolchini. Motori, vernici e poesia
di Antonio Carta.
Il suo primo amore? La minimoto gialla fiammante, con impresso il numero 46 in onore di Valentino Rossi, dono di babbo Egidioper il suo settimo compleanno, ricordo caro anche di nonno Giuseppe.
Maria Biolchini, 22 anni, terteniese gioiosa ed entusiasta, carrozziere nell’officina di famiglia, racconta la passione e la dedizione per il suo lavoro.
«Sin da piccola la mia esistenza è legata al mondo dei motori – spiega – e in particolare all’officina di mio padre. Per un Natale mia madrina voleva regalarmi una bambola, ma io le ho chiesto in dono un trattore! Ho sempre amato il rombo dei motori e mi piace rileggere il mio passato ricollegando eventi, doni, persone che mi aiutano a capire chi sono io oggi».
Prima di intraprendere il suo percorso lavorativo, Maria ha concluso gli studi diplomandosi presso l’Istituito Tecnico Commerciale di Jerzu.
Certo è che spesso la sua professione di carrozziere la costringe a interfacciarsi con pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni che vedono il mondo dei motori, della riparazione dei mezzi e della carrozzeria, come prerogativa esclusiva del mondo maschile: «Tante volte nel mio lavoro mi capita, per esempio durante un soccorso stradale col carroattrezzi, di sentirmi dire: “Tuo padre dov’è?”. Al che mi trovo costretta a rispondere che posso cavarmela da sola. Questo accade anche quando dei clienti arrivano in officina e mio padre non è in sede. Evidentemente alcuni pensano che io non sia in grado di svolgere il mio lavoro», ma a Maria piace smentire e sorprendere i suoi clienti con la professionalità e il sorriso che la contraddistinguono. «Non tutti sono pronti a vedere una ragazza di 22 anni guidare il carroattrezzi o lavorare in officina. Credo sia la conseguenza di una mentalità ristretta che ancora persiste nei nostri paesi. Spesso cerco una solidarietà femminile che fatico a trovare. A volte anche le donne sono capaci di far emergere i pregiudizi, forse perché il mio lavoro mi porta a non essere sempre perfetta esteticamente e forse perché a volte sono i sentimenti di gelosia ad avere la meglio, piuttosto che quelli di solidarietà».
Eppure Maria tiene al suo lavoro da carrozziere al pari del suo essere donna, aspetti che non si contrappongono affatto, perché ama il suo lavoro e anzi auspica che tutti, specialmente le donne, possano coronare i propri desideri professionali, i propri sogni, senza avere paura del giudizio altrui.
L’attività di Egidio Biolchini, padre di Maria, nasce nel 1990. «Mia madre lavorava con lui, è stata la prima donna carrozziere a Tertenia. Si occupava dei colori delle auto in officina, era il braccio destro di mio padre. A lei devo tanto».
Maria però non è l’unica donna in casa Biolchini ad avere le mani in pasta in officina. «Mia sorella Stefania è la mia mentore, la mia complice, a lei devo tutto ciò che faccio in officina e le riconosco soprattutto la pazienza nei miei confronti. È una persona attenta, che mi sprona, mi incoraggia e nonostante i miei errori è sempre disposta a starmi accanto per iniziare nuovamente insieme». La famiglia Biolchini è composta poi anche da Marco, quindicenne, attualmente studente «se lui vorrà, c’è sempre un posto anche per lui in officina».
Apparentemente, a uno sguardo veloce e forse distratto, il carrozziere è semplicemente colui che ripara le macchine. «In realtà è un lavoro che è molto di più – afferma con decisione Maria –. Il mio lavoro è un intrecciarsi di vite ogni giorno, soprattutto in situazioni difficili e inaspettate come i continui incidenti. Ogni persona che incontro ha una storia e un vissuto e io mi ritrovo a soccorrerla in una situazione spiacevole. Per questo non mi piace trattare i clienti come numeri, perché sono prima di tutto persone. Ognuno ti dà qualcosa, pur essendo estraneo, e a volte una sola parola basta per intessere un bel rapporto».
Allo stesso tempo precisa che anche lei, dietro la corazza di carrozziere, è una persona, e non «un robot che aggiusta macchine»: «Una volta ho dovuto soccorrere una persona che aveva con sé uno strumento musicale. È salita con me in cabina portandosi appresso la chitarra. Chiacchierando durante il viaggio, anche per rompere il ghiaccio, abbiamo iniziato a parlare di musica. Lei pensava, dato il lavoro che svolgo, che fossi una persona da chitarra elettrica e batteria, in realtà mi sento più una persona da pianoforte e violoncello. Insomma l’apparenza inganna». Così, dietro un carrozziere imbrattato di vernice, stanco e sudato per il duro lavoro, si può nascondere un’anima dolce e appassionata, come nel caso di Maria.
Tra una raddrizzatura, una stuccatura, un carteggio e una verniciatura, la giovane professionista terteniese porta avanti anche la passione per la scrittura e la poesia con la quale, convintamente si definisce orgogliosa di se stessa:
«Orgogliosa di me. / Orgogliosa del lavoro che svolgo.
Orgogliosa di rompere tutti gli schemi imposti da questa società malsana
Orgogliosa di dire: “Si, sono una ragazza e lavoro in Carrozzeria”.
Orgogliosa di non essere mai in ordine. / Orgogliosa dei miei capelli scompigliati.
Orgogliosa di essere acqua e sapone. / Orgogliosa di sporcarmi le mani.
Orgogliosa di indossare le mie amate U-Power.
Orgogliosa di me e della voglia di imparare ogni giorno qualcosa di diverso.
Orgogliosa di crescere sempre. Ogni giorno.
Orgogliosa di puntare sempre in alto con le persone giuste al proprio fianco.
Orgogliosa di non accontentarmi mai.
Orgogliosa di conoscere cose e persone nuove che ti aiutano a migliorare sempre.
Orgogliosa di mia Madre. / Orgogliosa di mio Padre. / Orgogliosa di mia Sorella».
Emanuele Canu, tra vibrazioni e risonanze
di Augusta Cabras.
È certo che l’esperienza lavorativa (e quindi anche umana) di Emanuele Canu non possa essere racchiusa solo nella definizione che Treccani dà di “tecnico del suono”. Scrive infatti la rinomata enciclopedia: il tecnico del suono è colui che sovrintende agli apparecchi per la captazione, la registrazione e la riproduzione dei suoni.
Una definizione asciutta, tecnica, limitata. Forse troppo. Perché dentro la vita e il lavoro che Emanuele Canu ha fatto finora – e ancora continua a fare come tecnico del suono – c’è: l’emozione di “prestare le orecchie” al pubblico scegliendo il suono migliore; la bellezza dei teatri, quella che lascia senza fiato; la potenza degli stadi gremiti di persone che cantano all’unisono; gli scenari naturali in cui l’incanto diventa esso stesso un canto meraviglioso. Ci sono poi i chilometri percorsi per raggiungere le città di tutta l’Italia, la valigia sempre in mano per le lunghe tournée fuori casa. E ancora gli incontri con artisti straordinari, insieme alla leggerezza di sentirsi comunque sempre un po’ allievo, con la voglia di sperimentare e di imparare continuamente, costantemente.
Una vita nella musica, quella di Emanuele, che fin da piccolino desiderava suonare la chitarra. Una vita nel suono, la sua, tra le vibrazioni e le risonanze.
Classe 1977, fino al diploma Emanuele vive a Tortolì, poi si trasferisce in Emilia Romagna, a Bologna, dove frequenta il DAMS che lascia dopo due anni di frequenza. A questo segue l’interesse e lo studio per la cinematografia, poi un corso come fonico. Da lì in poi è un crescendo di esperienze. «Credo di aver fatto di tutto dentro questo mestiere, dal facchino alla mansione che richiede più competenza e precisione». Emanuele non ama elencare gli artisti con cui ha lavorato, lo fa per riserbo (forse) e per umiltà (certamente). Dopo qualche insistenza riesco a farmene dire solo alcuni: sono Zarrillo, Noemi, Mannarino, Battiato, e ancora eventi in presenza del Papa o del presidente americano Bush, come nel 2006 al G6 di Venezia, in mondovisione.
Vent’anni di eventi, spettacoli e concerti. Vent’anni di lavoro intenso e appassionante. Gli chiedo se da quella posizione, che non è solo fisica ma di responsabilità, ci si può godere lo spettacolo oppure no. Emanuele un po’ mi spiazza dicendo: «Se non mi godessi lo spettacolo, non starei facendo bene il mio lavoro». Ci penso un po’ su e capisco che in effetti ciò che lui vorrebbe sentire (il suono migliore possibile) o sente, è quello che arriva alle orecchie (e al cuore) delle persone che hanno scelto quel concerto o quell’evento.
Emanuele spiega che più il livello di un concerto è alto (cantante di fama, mega produzioni, ecc.) più il ruolo del fonico si fa specifico, per cui può esserci il fonico di palco «che diventa un altro elemento della band», il fonico di sala e il fonico di messa in onda; in eventi di piccole dimensioni spesso le figure coincidono in un unico professionista che microfona, verifica, mixa e prepara gli ascolti dei musicisti. Gran bella responsabilità!
Dopo questo continuo andare di città in città, di teatro in teatro, con base stabile nelle Marche, Emanuele qualche anno fa matura il desiderio di tornare in Ogliastra, con la sua compagna e la sua terza figlia di 12 anni, Cecilia. «Dopo tanti anni avevo bisogno del ritmo di questi luoghi, di questa calma – dice –. Sono una persona che si annoia facilmente, ho bisogno di fare, di creare, di progettare e stare ad Arbatax mi fa bene. In questo momento è la dimensione giusta per me e per la mia famiglia. Mi piace l’idea che nostra figlia possa passare qui gli anni dell’adolescenza. Ci piace che possa andare a scuola a piedi, è bello che ci sia ancora questa possibilità mentre altrove, anche in paesi molto piccoli, non esiste più. Può sembrare un dettaglio da poco, ma in realtà non lo è». Emanuele mi accoglie nella sua casa. In una grande sala c’è uno studio di registrazione: mixer, microfoni, strumenti musicali, Pc. Un regno di suoni, echi, riverberi, note, dissonanze e assonanze. Un luogo di progettazione, sperimentazione, scambio, dialogo. «In Ogliastra c’è un potenziale creativo altissimo – spiega il fonico –. Serve scoprirlo, dare spazio e farlo emergere. Banalmente bisogna “fare cose”, offrire opportunità perché solitamente a una cosa ne segue sempre un’altra». Oltre al potenziale creativo, in Ogliastra c’è una natura così straordinaria che ha suggerito a Emanuele e ad alcuni suoi collaboratori di ideare un format dal titolo The Sardigna Trip, presente ancora sul canale Youtube. «Partendo da alcuni pilastri fondamentali radicati in discipline e conoscenze apparentemente distanti tra loro, come la musica, la fisica, la storia, le arti grafiche, la meccanica quantistica, lo studio dei testi sacri e delle tradizioni orali, l’astronomia e la geologia, raccontiamo come una produzione artistica possa essere influenzata e amplificata proprio dal luogo fisico e naturale in cui viene creata, grazie alla relazione vibrazionale esistente in determinati luoghi che risuonano (entrano in risonanza) con le onde e con le vibrazioni del cosmo».
Un modo nobile di intendere la musica e di fare musica. Fuori da certi schemi convenzionali e commerciali, fuori dal tempo breve di una canzone, fuori dai cliché e dai grandi cachet (come canta Dario Brunori, per essere in tema).
Pur avendo scelto Arbatax come luogo in cui vivere, Emanuele continua a fare tournée in giro per l’Italia e non solo, collaborando stabilmente con la compagnia teatrale Rosso Levante. «La dimensione del teatro mi piace moltissimo e sono felice di questa collaborazione».
Siamo certi che altri progetti artistici potranno nascere in Ogliastra anche grazie alla passione e alla bravura di un tecnico del suono che sovrintende agli apparecchi per la captazione, la registrazione e la riproduzione dei suoni. Ma non solo.
[Foto Pietro Basoccu]
Quando la casa è un’Opera d’arte
di Fabiana Carta.
Marco Bittuleri, classe 1979, è il fondatore di Opera, azienda nata in Ogliastra nel 2009 che progetta, costruisce e ristruttura edifici utilizzando pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, con un approccio bioclimatico
Un grande pensiero fisso, quasi un’ossessione. Il bisogno innato di progettare e costruire abitazioni, fin da bambino. Una sorta di attrazione inspiegabile lo spingeva – e lo spinge ancora oggi – a fermarsi a osservare le facciate degli edifici e le linee, a immaginare, sommare, calcolare. La differenza la fa sempre lo sguardo, di chi una scatola non è solo una scatola, se ne sovrapponi due diventano una casa, di chi nel gioco a incastro del tetris vede le proporzioni identiche alle case modulari. «Ho sempre avuto il pallino della casa, casa in quanto elemento finito. Ricordo un viaggio a Barcellona da ragazzino, con gli amici. Trascorrevo la maggior parte del tempo a scattare foto a tutti gli edifici moderni che incontravo, per me erano qualcosa di eccezionale», racconta Marco Bittuleri, 43 anni di Arzana, fondatore dell’azienda innovativa Opera. Non parliamo semplicemente d’impresa, ma del sogno di costruire qualcosa per le precise esigenze della persona, secondo principi che s’ispirano alla natura e al benessere fisico e spirituale.
La scelta della scuola superiore va verso quella direzione: Marco frequenta l’Istituto tecnico per geometri di Lanusei. «Non ero uno studente modello – precisa –, sono stato bocciato. Così per un periodo ho lasciato gli studi e ho iniziato a fare il manovale, ma ho capito che quel lavoro non mi piaceva, sentivo sempre forte il bisogno di progettare, creare qualcosa di mio. Dopo due anni sono tornato a scuola per prendermi il diploma, ho fatto le serali. La mattina andavo a lavorare nello studio di Valter Bortolin, ingegnere e mio professore di costruzioni e topografia. Con lui ho imparato a progettare. Mentre la sera studiavo». Dopo qualche anno comincia a lavorare per la Serit Lavori, azienda con sede a Roma ma operante in Sardegna nel settore dell’edilizia pubblica, dove si occupa di cantieristica e contabilità lavori, all’inizio con il ruolo di preposto di cantiere, poi di direttore tecnico di cantiere per il mercato sardo. «Ci siamo occupati anche dell’ampliamento della scuola dove ho studiato, è stato emozionante. Ma il mio chiodo fisso continuava a essere sempre lo stesso», ricorda Marco.
È dagli anni 2000 che sente parlare di case in legno e si accorge di una predisposizione del mercato verso la prefabbricazione, sfogliando riviste di settore nello studio in cui lavorava. «Quando ho iniziato a parlare della mia idea con qualcuno, in Ogliastra, nei primi tempi mi hanno preso per matto. Mi dicevano che non era percorribile, che non si sarebbe potuta realizzare mai. Poi, studiando per conto mio, ho approfondito la storia del Bauhaus, la scuola d’arte e di architettura più importante del ‘900, fondata dall’architetto Walter Gropius in Germania. Ho scoperto che la prefabbricazione esisteva già negli anni Trenta, era già un pallino di Gropius. Lì ho trovato finalmente qualcosa e qualcuno di concreto a cui ispirarmi», spiega.
Nel 2009 nasce Opera e la rivoluzione dell’abitare: le Bluehouse, edifici costruiti con pannelli di legno che garantiscono un grado altissimo di salubrità e autosufficienza energetica, progettate con un approccio bioclimatico. Da Arzana al Trentino Alto Adige, la rivoluzione green di Marco Bittuleri sta incuriosendo anche il mercato europeo e americano. La filosofia è questa: allontanarsi dall’edilizia tradizionale e dalle colate di cemento per avvicinarsi a un concetto di casa che diventa modulare, su misura, in sintonia con il contesto e con materiale totalmente sostenibili, da vivere il tempo che stiamo su questa terra. «Ho cercato di trovare la soluzione per vivere in maniera dignitosa, – spiega Marco – e dopo dovremmo avere la possibilità di poter smontare tutto e lasciare il territorio, la natura, così come l’abbiamo trovata prima di costruirci sopra. Il problema delle case invendute nei nostri paesi è proprio questo: demolirle costa una fortuna, così le persone costruiscono fuori dai paesi, e all’interno restano mezzo vuoti, con quattro gatti e case così grandi che ospiterebbero venti persone».
I concetti di bello o di brutto sono annullati, non esistono. Esiste solo ciò che funziona e che è contestualizzato nel territorio, il design diventa qualcosa che deve assolvere a una finalità precisa. La casa diventa come un’automobile, da monitorare costantemente nei consumi e nei costi, come un “tagliando”. E i costi? «Noi tutti abbiamo l’abitudine a generalizzare il costo della casa, ma il costo della casa al metro quadro non esiste, è qualcosa che si fa solo per stabilire una vendita sul mercato. Chi la costruisce non può farlo attraverso un valore di mercato. Chi sceglie una Bluehouse è perché si è approcciato alla casa con sensibilità, perché ama quella tipologia costruttiva, per l’aspetto ecologico», spiega Marco.
Oggi Opera conta un team di oltre 15 persone, vanta numerosi riconoscimenti e progetti importanti. «Mi rendo conto che non posso essere il costruttore di tutti. Ho scelto di fare questo lavoro come una scelta di vita, lo faccio a modo mio e sono sicuro che là fuori c’è qualcuno che la pensa come me: è proprio a lui che devo pensare. Sono molto orgoglioso di tutte le soddisfazioni e i successi che stiamo raggiungendo, ma so che non sarò mai arrivato. Quella che voglio realizzare è sempre la casa più “bella”, e per me è sempre quella che dovrò fare domani. Lavorare in questo settore è difficilissimo, ma devo portare avanti il mio sogno», conclude. Ecco qual era la missione di quel bambino che osservava le facciate degli edifici: tradurre le esigenze delle persone attraverso le linee, mettere insieme i numeri e il disegno.
DeUs Apicultura. L’Olimpo del miele
di Claudia Carta.
Stregato dalle api. «Il loro modo di vivere ha qualcosa di incredibile, sembra quasi fantastico! La loro struttura, l’organizzazione, la ricerca del cibo. Lavorano instancabilmente tutto il giorno, orchestrate dall’ape regina che gestisce in modo impeccabile l’intero alveare. Ogni ape ha il suo compito: operaie, bottinatrici, spazzine, fuchi. Pensa che in un alveare in piena produzione sono presenti circa centomila api!».
Si illumina di meraviglia Samuele Usala, giovane imprenditore di Escalaplano, agrotecnico e operatore agro ambientale per formazione. Classe 1981, rivendica con orgoglio il diploma conseguito all’agrario di Muravera. Una passione, quella per l’apicoltura, che inizia a prendere corpo nel 2009. Allora gli alveari erano solo due. Sarà la strada giusta? Timori e perplessità accompagnano ogni nuovo inizio, ogni sfida. Ma Samuele ci crede. Al punto che gli alveari, oggi, sono un centinaio e la sorpresa degli esordi si è lentamente trasformata in convinzione e professionalità.
Ai piedi del monte Santa Vittoria e S’Accolla, in località Paullionas Taccu, un altipiano a 700 metri sul livello del mare, la sua azienda agricola si estende per circa 50 ettari, a sei chilometri da Escalaplano. È il regno di Samuele: «Siamo circondati da un territorio selvaggio, aspro, del tutto estraneo a coltivazioni intensive – spiega –. Condizioni che hanno reso possibile la sopravvivenza di un ecosistema mediterraneo dalle caratteristiche uniche, ricco di una grande varietà di piante ed erbe officinali spontanee, le stesse che inebriano e impregnano di inconfondibili profumi i nostri prodotti esclusivi».
Un’azienda agricola completa, sul territorio già da dodici anni. Era il 2011. Negli intenti di Samuele una grande visione: «Portare avanti e migliorare l’attività intrapresa da mio padre, negli anni Ottanta, in continuità con quella di mio nonno e mio bisnonno. L’intento era chiaramente quello di tramandare valori e saperi della tradizione».
Intento e visione si concretizzano in una realtà lavorativa oggi affermata, nella quale si allevano ovini, bovini, suini e animali da cortile per la produzione di carni scelte. I risultati parlano di latte, olio e vini di ottima qualità. I prodotti ottenuti e trasformati in quantità limitata, vengono successivamente venduti negli spazi aziendali a chilometro zero, nei mercati di “Campagna amica” o direttamente recapitati a domicilio.
Se è vero che DeUs Apicoltura nasce un po’ per gioco – come Samuele racconta – è altrettanto vero che la formazione e lo studio sono roba seria: il giovane imprenditore escalaplanese frequenta i corsi regionali di apicoltura di primo e secondo livello e quelli di allevamento api regine. Anche per questo l’eccellenza della sua azienda – che gestisce insieme alla moglie Carla e ai fratelli Marco e Daniele – è rappresentata dalla produzione del miele di pregiate varietà: millefiori, mirto, corbezzolo, rosmarino, asfodelo, senza dimenticare i mieli aromatizzati, quali Abba ‘e meli, la grappa sarda aromatizzata al miele.
«La produzione di miele per alveare – fa notare Samuele – si aggira intorno ai 35/40 chilogrammi in condizioni climatiche buone. C’è da dire che negli ultimi anni la siccità non ci ha aiutato tantissimo.
Purtroppo il cambiamento climatico e i pesticidi non sono di grande aiuto: cerchiamo di tenere in vita le famiglie facendo grandi sacrifici, soprattutto economici e, cosa molto importante di cui andiamo orgogliosi, con metodi biologici per cercare di ottenere un prodotto di altissima qualità».
E la qualità, si sa, paga sempre. Fioccano premi e riconoscimenti a livello regionale e nazionale: «Sì, già a partire dal 2014 abbiamo ricevuto numerose gratificazioni per il lavoro che facciamo – racconta –. Presentandoci al concorso regionale di Montevecchio, siamo stati premiati per il miglior miele di corbezzolo e miele multiflora. Al Sardinia Food Awards siamo risultati vincitori per la “categoria miele”, nel 2021, e “per innovazione di prodotto in apicoltura”, nel 2022. Sempre in quell’anno, grazie a tutti i like e le recensioni sui social, ci hanno premiati come “eccellenza italiana”. Infine, quest’anno, a sorpresa devo dire, all’Italy Food Arwards di Milano, siamo risultati vincitori di categoria per i prodotti tipici regionali».
Sarà perché lo sguardo di Samuele spazia a 360 gradi, sarà perché la voglia di migliorare, di affinarsi, di crescere non è relegata negli confini territoriali, sta di fatto che DeUs Apicoltura guarda avanti, sapendo che sinergia ed esperienza possono portare lontano: «Mi piace collaborare con altre aziende isolane – sottolinea Usala – ma anche con quelle della Penisola: due anni fa agli Oscar Green di Coldiretti siamo arrivati in finale con Sinergica, una birra al miele prodotta insieme al birrificio Arbareska di Bruno Ghiani di Isili. A Bitti, con l’azienda di Andrea Chirra, Santu Jorgi, abbiamo prodotto un’altra birra, Tzia tua, realizzata con le bacche di mirto raccolte sul nostro territorio». Oltre mare, la collaborazione arriva a Padova, dove il miele sardo unito alla propoli e altri prodotti locali danno vita a squisite caramelle. Scendendo a Sud, all’ombra del Vesuvio, nascono altri prodotti, come le creme per il viso e le mani, il burro per le labbra e altri preparati per la cosmesi.
Il futuro è già qui. Samuele è pronto a scriverlo: «Le idee sono tante. La prima è certamente quella di realizzare un piccolo agriturismo dove far degustare i prodotti direttamente in azienda e far vivere agli ospiti il nostro lavoro e il nostro territorio».
La Fungaia: molto più di una fattoria didattica
di Fabiana Carta.
Nelle campagne di Lotzorai, nel 2010, dalla passione per la natura nasce un’azienda agricola che si occupa di coltivazione di funghi e ortaggi. Nel 2013 parte anche il sogno di aprire una fattoria didattica, un centro educativo adatto a far scoprire i segreti della natura e degli animali, le attività della fattoria e l’origine dei prodotti alimentari. Monica Arzu ci racconta il suo progetto
Un diploma all’istituto tecnico commerciale, una scrivania, un ufficio.
Sarebbe stata questa la sua vita, se non avesse scelto con coraggio un’altra strada. L’idea di stare chiusa per tante ore fra quattro mura non può essere entusiasmante quando la natura e gli animali sono tutta la tua vita, ciò che ti rende felice.
Monica Arzu, 47 anni di Lotzorai, nel 2010 ha deciso di investire in un progetto che parte dalla terra: un vecchio vigneto danneggiato da un incendio diventa il luogo perfetto per installare delle serre per la coltivazione di funghi e ortaggi, accogliere piante d’ulivo, alberi da frutto e piante aromatiche. «Nel 2012 ho frequentato il corso di operatore di fattorie didattiche – racconta Monica – e nel 2013 ho ottenuto l’iscrizione all’albo delle fattorie didattiche della Regione Sardegna, presupposto di partenza per l’attività. Così ho iniziato ad accogliere scuole, gruppi e famiglie alle quali, attraverso attività didattiche, offro la possibilità di avvicinarsi in modo pratico e non solo teorico al mondo agricolo. Obiettivo principale: formare nuove generazioni responsabili e consapevoli».
Una fattoria didattica immersa nel verde diventa un luogo in cui si impara a mangiare sano, a rispettare la natura, gli animali, gli insetti e tutto il mondo che ci circonda. L’azienda agricola si occupa principalmente della coltivazione di funghi, in particolare il Pleurotus Eryngii, noto a tutti con il nome di cardoncello, una varietà di funghi che cresce naturalmente nel Meridione nei mesi autunnali e primaverili, grazie alle temperature favorevoli. «Negli ultimi anni ho dovuto riscontrare danni alla produzione dovuti all’insorgere di malattie. La causa? Il cambiamento climatico, che porta con sé un forte innalzamento delle temperature e grandi sbalzi termici. Per questo motivo sto avviando la produzione anche di altre varietà di funghi più resistenti e di notevole importanza nutrizionale, come Shiitake, Pioppino, Pleurotus Djamor, Hericium, Black Pearl», spiega Arzu. Nella continua ricerca di metodi alternativi per l’abbattimento dei costi e il miglioramento delle condizioni ambientali, in seguito a uno studio realizzato in collaborazione con l’Università di Sassari, l’azienda agricola ha deciso di trasformare il substrato esausto di fungaia in ammendante composto misto con l’ausilio di lombrichi.
Nonostante la coltivazione dei funghi sia l’attività principale, in azienda si producono anche ortaggi, mettendo a dimora i semi a fine inverno in serra, trapiantandoli poi in primavera. «Il corso per operatore di fattoria didattica è stato una sorpresa – fa notare Monica – molto utile e per niente scontato. Ci hanno insegnato che l’essere umano apprende naturalmente facendo: perciò quando svolgo le attività didattiche cerco di coinvolgere continuamente attraverso attività manuali. Propongo dei laboratori sensoriali per la raccolta di funghi in serra, di erbe aromatiche o della frutta; cerco di stimolare l’apprendimento attraverso dei giochi, come la raccolta di funghi artificiali che riproducono quelli velenosi e commestibili, per imparare a riconoscerli. Laboratori creativi o di cucina, tutte attività che in maniera divertente e stimolante aiutano ad avvicinarsi a questo mondo».
Qualcuno fa ancora fatica a capire la differenza tra una fattoria didattica e uno zoo, per esempio. Non è un semplice luogo in cui andare a osservare gli animali, ma un vero e proprio centro educativo per far scoprire i segreti della natura, far conoscere le attività svolte in fattoria, la vita degli animali, l’origine dei prodotti alimentari, il mestiere dell’agricoltore, i lavori necessari a produrre gli alimenti di cui noi tutti ci nutriamo. «In Ogliastra la risposta è positiva – continua –, anche se si fa fatica a comprendere l’importanza di questi luoghi formativi. Vivendo in un paese turistico accolgo anche tante famiglie e gruppi di turisti stranieri, apprezzano molto i percorsi didattici, soprattutto quello sugli insetti. Ma, naturalmente, in azienda ho anche degli animali quali caprette nane, conigli, maiali, galline, oche, pappagalli, cani e gatti».
Monica gestisce da sola tutti gli impegni della Fungaia, ogni tanto, però, riceve l’aiuto di suo marito, dei figli, delle sue sorelle o dei genitori. «È un lavoro che mi impegna tanto in prima persona, ma avendo un andamento stagionale mi permette, per il momento, di non aver bisogno di un dipendente. Sono molto contenta di quello che faccio, in futuro vorrei intraprendere un corso di studi utile al mio lavoro», conclude.
Chissà come sarebbe stata la sua vita senza il silenzio della campagna, i suoi animali e senza il profumo di cisto e lavanda selvatica.
Maria Vittoria Frare. La dolcezza è un’arte da tramandare
di Anna Piras.
Ricordi, emozioni, traguardi e speranze. Sono gli ingredienti migliori per raccontare la storia di Maria Vittoria e delle giovani pasticcere del suo laboratorio di Arbatax.
Originaria del Veneto, titolare nella frazione rivierasca della pasticceria “Maria Vittoria”, ci ha accolto nel suo laboratorio portandoci indietro nel tempo attraverso i suoi ricordi.
Le vicende familiari l’hanno portata a conoscere e ad amare la Sardegna e a sentirsi a casa sua nella nostra terra. La passione per l’arte dolciaria e l’insistenza dei suoi familiari l’hanno convinta ad aprire la pasticceria artigianale che col tempo si è affermata ed è diventata un’importante realtà lavorativa anche per delle giovani donne che lei stessa ha formato.
Seduta su uno sgabello, ha ripercorso i momenti più significativi della sua vita, raccontando il suo percorso di crescita, le esperienze che l’hanno vista impegnata, fin da bambina, nel lavoro.
Con gli occhi lucidi, velati di lacrime ha iniziato a parlare nel suo dialetto a ruota libera.
«Avrei preferito aiutare mia madre nei lavori di casa – racconta – ma i miei genitori mi spronavano sempre affinché fin da piccola imparassi un mestiere. Provengo da una famiglia numerosa, composta dai miei genitori e undici figli, sette femmine e quattro maschi. Mi chiamo Vittoria perché sono nata nel 1941, in tempo di guerra, e mio papà era convinto che avremmo vinto il conflitto, ma andò diversamente, così mio zio, mi chiamava sempre “Vittoria persa”! Andavo in panificio per imparare a panificare: ricordo che avevo solo nove anni e non arrivavo neanche al bancone mentre impastavo la mia prima rosetta. Spesso dovevo lavorare nell’orto, altre volte andavo ad aiutare mio padre nel negozio di alimentari o seguivo mia madre in casa nelle faccende».
Maria Vittoria, una volta sposata, ha vissuto tanti anni con suo marito nella centrale del Secondo Salto, ha cresciuto i suoi tre figli lì e vi ha trascorso felicemente il proprio tempo, intessendo tante relazioni significative con persone che le hanno dimostrato affetto, disponibilità e generosità. Ha fatto importanti esperienze di vita che le son servite nel corso degli anni.
«Ero la pasticcera dei bimbi che abitavano al Secondo Salto – continua –, preparavo le torte che loro stessi prenotavano, con giorni di anticipo, per darmi il tempo di procurarmi tutti gli ingredienti».
Il suo interesse per l’arte della pasticceria l’ha portata nei vari paesi della Sardegna per carpire dalle massaie i segreti delle ricette dei dolci tipici.
Racconta di aver iniziato a lavorare per aiutare una sua amica che da sola aveva difficoltà nel gestire impasti e decorazioni, le chiedeva spesso un aiuto e lei non si tirava indietro. Ha continuato a formarsi e, spesso, chi aveva accanto la spronava a credere maggiormente in se stessa e nelle proprie potenzialità. Il marito e i figli hanno sempre avuto tanta fiducia nelle sue risorse e hanno insistito affinché facesse di questo dono, di quest’arte, un vero e proprio mestiere.
Lo scorrere dei ricordi l’ha portata a raccontare quanto sia stato importante e prezioso imparare dagli altri: «Ciò che mi è stato tramandato – sottolinea – è stato prezioso per farmi crescere e mi ha fatto apprezzare la generosità dei sardi, il loro donare e donarsi agli altri, così, nelle cose di tutti i giorni, spontaneamente e gratuitamente. I sardi ti accolgono in casa loro, si prodigano per farti sentire a tuo agio, tengono moltissimo all’ospitalità. Questo aspetto mi ha colpita tanto».
All’età di sessant’anni Maria Vittoria ha aperto la pasticceria che nel quotidiano l’ha condotta ad affrontare tanti sacrifici, tante rinunce, ma anche a incrociare il suo destino e la sua vita con quella di tante persone.
E ringrazia Dio perché nella sua esperienza lavorativa ha così potuto restituire il bene ricevuto, insegnando a delle giovani donne il suo mestiere, trasmettendo loro tutto il suo sapere e la sua voglia di migliorare. Jennifer, Monia e Manuela: sono questi i nomi delle pasticcere che potranno lavorare con la consapevolezza di aver in mano delle competenze provenienti da più fonti.
«Siamo felici di stare bene nel nostro ambiente di lavoro – commentano – e siamo convinte che la dedizione e l’impegno di altre donne e di Maria Vittoria, che ci hanno trasmesso il loro sapere, ci accompagneranno sempre nel nostro percorso di crescita professionale. La pasticceria è una famiglia».
Effettivamente è una bella realtà che richiama la famiglia. Si respira un profumo intenso di dolci preparati con amore e nel laboratorio l’intesa tra loro è fatta di sguardi, battute, rispetto, indicazioni, consigli e risate, tante risate.
L’incontro tra la tradizione e l’innovazione porta fermento, entusiasmo e voglia di crescere. Questo passaggio di testimone fra donne di differenti età ha sempre permesso che le realtà lavorative artigianali potessero continuare a crescere e sarà così anche stavolta: Jennifer, Monia e Manuela sono «come figlie» per Maria Vittoria, coloro che con affetto e mille attenzioni la fanno sorridere. «Certe volte mi fanno sentire, a quasi ottantadue anni, prossima alla pensione – racconta sorridendo – e ogni tanto le spedisco a far dei corsi; poi le ritrovo che parlano e si scambiano idee, navigano sul computer e questo mi riempie di gioia. Il tempo è passato, le forze vanno e vengono e sento che il lavoro delle ragazze mi rende orgogliosa di loro e del loro impegno. Ci sono giorni nei quali non posso scendere in laboratorio, allora mi affaccio alla finestra della mia casa, proprio di fronte alle vetrine e telefono alle ragazze e, mentre parliamo, le vedo e sono tranquilla».