In breve:

Culle vuote: non si nasce più

neonato

di Fabiana Carta.
L’Italia ha chiuso il 2015 con un triste record: tra i 28 Paesi dell’Ue possiamo vantarci dell’ultimo posto per il tasso di natalità più basso. E non ci sono all’orizzonte segnali di miglioramento…

Siamo nel periodo in cui celebriamo il miracolo della Natività, la nascita di Gesù Cristo. Ma in questo fine anno in Italia ci tocca fare i conti anche con altre nascite e con il loro drammatico tracollo: da gennaio a giugno 2016 se ne sono contate 14 mila in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un calo che non si era mai registrato in epoca recente: il -6 % in un anno. Se pensiamo che valori peggiori si erano registrati solo durante il primo dopoguerra, c’è seriamente da preoccuparsi. Nel 2016, se il trend dovesse essere confermato dalle rilevazioni del secondo semestre (luglio-dicembre), potremmo contare altri ventimila neonati in meno.
In 90 anni è la prima volta che il Belpaese perde popolazione; è emerso, infatti, che i decessi superano in modo cospicuo le nascite, determinando un calo della popolazione di circa 130 mila unità. Le cause sono da ricercare nell’invecchiamento della popolazione, con conseguente aumento della mortalità e, appunto, nel regresso della natalità, che permane tale ormai da almeno 7 anni. Come possiamo constatare, gli ultimi dati allarmanti non lasciano spazio allo stupore: col tempo va sempre peggio.
L’Italia ha chiuso il 2015 con un triste record: secondo Eurostat (l’Istituto europeo di statistica), tra i 28 Paesi dell’Ue possiamo vantarci dell’ultimo posto per il tasso di natalità più basso. In altre parole, i neonati sono stati 8 ogni 1000 residenti. Il podio dei più prolifici l’ha conquistato l’Irlanda, con 14,2 neonati ogni 1000 residenti, seguita da Francia con 12 nuovi nati ogni 1000, Regno Unito con 11,9 su 1000 e Svezia, con 11,7 su 1000. Nel complesso la popolazione europea, sempre nel 2015, è cresciuta passando da 508,3 a 510,1 milioni e questo piccolo aumento è avvenuto solo grazie agli immigrati. Restando in tema di record italiani, possiamo vantarne un altro in termini di età media, si diventa mamme ormai solo dopo aver superato i trent’anni. I dati ci dicono addirittura che le mamme over 40 dal 2002 al 2012 sono raddoppiate, passando dal 3,1% al 6,2%.
Angela Silvestrini, ricercatrice dell’Istat e responsabile dell’indagine sul bilancio demografico, commenta in questo modo le cifre: «La principale causa è una causa strutturale della popolazione. Cioè, noi vediamo che una struttura di popolazione, un numero di donne sempre più ridotto che mette al mondo bambini, porta conseguentemente a una riduzione delle nascite in valori assoluti. Quindi, perché 14 mila in meno? Perché diminuiscono le donne in età feconda. Allora, questa è la prima causa contro la quale l’unico rimedio è aumentare la fecondità. Poi, che la lettura sulle cause di un livello così basso di fecondità, cioè di numero di figli per donna, sia legata anche a un problema economico che quindi fa ritardare sempre più la nascita del primo figlio, è un altro elemento che leggiamo come importante nella riduzione delle nascite».
Stringendo lo sguardo verso i nostri confini la situazione non risulta granché migliore; secondo i dati Istat 2014, l’Ogliastra ha un tasso di natalità del 7,9% e un tasso di mortalità del 9,8%. La popolazione della Sardegna nell’arco di cinque anni (2011-2015) è diminuita di 12.125 individui; e, continuando con i numeri, su 377 comuni, 277 perdono abitanti e 22 risultano in pareggio tra natalità e mortalità. Solo 78 comuni presentano un aumento della popolazione. Sempre secondo le statistiche del 2015, il primato del crollo delle nascite è andato a Macomer, con un tasso di natalità di 4,8 per mille abitanti.
Ebbene, dopo quest’indigestione di cifre e di dati, tentiamo di capire quali sono le ragioni che ci hanno portato verso un tale trend negativo in continuo peggioramento. Come si può ben immaginare la crisi economica ha gettato nello sconforto le giovani famiglie con il progetto serio di avere dei figli, anche perché le buone politiche familiari che dovrebbero facilitare e sostenere la maternità sono quasi assenti. Eppure, le indagini che tecnicamente vengono denominate «Intenzioni di fecondità», ci dicono che le donne italiane vorrebbero in media due figli. Negli anni Sessanta la natalità era più elevata nei Paesi in cui i tassi di occupazione erano bassi e le donne erano impegnate soprattutto in lavori domestici, invece nei Paesi con un tasso di occupazione più alto le nascite erano minori. Oggi succede il contrario: si ha bisogno di una sicurezza economica che coinvolga entrambi, non solo l’uomo.
Ma possiamo addossare la colpa solo alla crisi economica, al desiderio di una carriera che fatichiamo a costruirci, alla mancanza di servizi? Azzardando un’analisi sociale, la donna oggi è più consapevole, la maternità non è più solo istinto, come scrive la psicologa Elena Rosci nel suo saggio La maternità può attendere: «La maternità è oggetto di una profonda riflessione e il desiderio è ondivago, talvolta non così imperioso da essere portato a termine, ma oggetto di valutazioni di opportunità temporali, sentimentali, lavorative, abitative, psicologiche». Il modello di donna stile Marion, la casalinga e madre di famiglia del telefilm Happy Days non esiste più, questo lo sappiamo. E se cerchiamo di andare oltre i sondaggi e le percentuali possiamo ammettere anche che esistono casi di coppie con una buona stabilità economica, senza alcun problema finanziario che possa fare da ostacolo, che tendono comunque a procrastinare il momento di avere dei bambini. Senza dimenticare quella percentuale di donne che tranquillamente, senza doversi più nascondere o vergognare dei giudizi altrui, ammettono di non volere figli: Euribor (un Istituto europeo specializzato in ricerche di mercato) ha calcolato che si tratta del 2% delle donne e del 4% degli uomini tra i 18 e i 40 anni. Forse abbiamo idealizzato troppo il concetto di maternità. Forse molte donne non si sentono pronte e all’altezza. Lasciamo le ultime parole alla sociologa Carla Facchini: «C’è un iperinvestimento sui figli, ne segue una serie di paure: di non essere buoni genitori, di non poter provvedere all’università, di non riuscire ad assicurare il futuro che vorremmo».

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