In breve:

Dentro la notizia. Giacomo Mameli

Giacomo Mameli

di Alessandra Secci.

Carlo Bo, indimenticato critico letterario tra i più grandi del Novecento, accademico, politico, senatore a vita nominato da Pertini negli Anni Ottanta, a cui è intitolata l’Università degli studi di Urbino, sosteneva che dove c’è gente, c’è notizia. Quasi un mantra per Giacomo Mameli, che proprio in quello stesso Ateneo e proprio avendo come controrelatore il professor Bo (e relatore Paolo Fabbri) ha discusso la sua tesi di laurea in Giornalismo (dal titolo Quattro paesi, un’isola). Ottantuno anni che paiono almeno venti in meno, cronista di lunga data, apprezzato saggista, foghesino doc e direttore del festival Settesere, Settepiazze, Settelibri, lo intercetto prima che raggiunga il gate per Fiumicino, smaniosa di aprire quella cassetta degli attrezzi del suo mestiere e di conoscerne i segreti.

Broadcast News

La professione, ieri e oggi. «Considerando l’accesso alle informazioni – spiega – oggi la ricerca è facilitata, sulla rete si trova di tutto su tutti; in precedenza il cronista svolgeva una ricerca di tipo quasi speleologico, poiché gli elementi informativi dovevano essere setacciati di persona. Per questo ritengo che in passato vi fosse più mestiere e forse meno professionalità, anche se quest’ultima c’è sempre stata. Il giornalismo ha delle regole fondamentali, che da Giulio Cesare, da Erodoto, sino ai giorni nostri non sono cambiate, le classiche Cinque W: chi (who), cosa (what), dove (where), quando (when) e perché (why), ovviamente tutte coordinate da una professionalità che oggi risiede nella qualità della scrittura e dell’indagine. Un buon giornalista non è un reggi moccolo, uno che ossequia il suo interlocutore, deve sapergli controbattere, deve essere informato quanto lui. In Italia, pur essendoci delle autentiche eccellenze, c’è molta modestia, e quello italiano attuale è un giornalismo da incenso più che da inchiesta; io la penso in modo differente: proprio come succede per la terra, le notizie vanno zappate».

Inviati molto speciali

Reporter in casa e in trasferta. «Tra raccontare il mondo e raccontare del proprio mondo, del territorio di appartenenza, non vi è nessuna differenza: così, tra intervistare Gorbaciov ai funerali di Berlinguer, Arafat sulla crisi palestinese o i Khmer Rossi nella foresta cambogiana, e sapere tutto sul mio paese, sul contesto in cui vivo, ciò che interviene, è uno degli altri caratteri fondanti del giornalismo, la completezza dell’informazione, la sua base. Lo scrupolo col quale gli inviati del Guardian di Londra e del New York Times hanno, ad esempio, voluto incontrare di persona i centenari foghesini, a volte percorrendo lunghe distanze, è stato rimarchevole, e spesso questa nel nostro Paese (anche qua con le dovute eccezioni) è un’accuratezza che manca. Quello che occorre evitare è di farsi trascinare dall’attaccamento alle nostre radici, dal tranello della retorica, del favolismo, della facile mitizzazione: quando scrissi La ghianda è una ciliegia, ho raccontato le storie dei soldati foghesini durante la Seconda Guerra Mondiale, sentendo non una ma almeno venti volte gli intervistati, che conoscevo personalmente. Allo stesso modo ho narrato le vicende del partigiano di Jerzu massacrato sulle colline piemontesi dai fascisti, o di quello ulassese trucidato nell’entroterra metallifero di Volterra. Ancora, raccontare gli emigrati sardi in America o descrivere le gesta di quelli foghesini a Parigi, Milano o Torino, non cambia molto, il tecnicismo è lo stesso. Ciò che cambia, tra la narrazione del mondo e di quella sua piccola parte più prossima a noi è semplicemente il privilegio di avere le notizie di prima mano e di poter quindi verificarle personalmente».

The Post

Aspiranti reporter, prendete nota: «Per fare questo mestiere ci vuole un incrocio tra caratteristiche tecniche, competenze, e attitudini alla professione. Molta modestia, intanto, la conoscenza delle lingue, studi di sociologia, di pedagogia e di storia soprattutto. Se un giornalista racconta di cronaca giudiziaria ed è laureato in Giurisprudenza, è chiaro che avrà anche quelle conoscenze tecniche che gli consentiranno non di scrivere un articolo tecnico, ma di elaborare un pezzo giornalisticamente corretto rispettando la tecnica. Come detto, ci vuole la consapevolezza che il giornalista non deve essere un reggi microfono, deve informare, e per informare ci vuole sapienza nell’utilizzare quella cassetta degli attrezzi. E sempre per ritornare al discorso iniziale, in riferimento alle parole del professor Bo e dunque alla completezza dell’informazione, occorre avere un quadro esaustivo, per delineare il quale si deve avere coscienza del fatto che il giornalista ha una grande responsabilità, che deriva anche dalla preparazione: le scuole di giornalismo sono importanti e consigliate. Ma non è vero che si impara l’arte solamente nelle redazioni, dove si apprende certamente la tecnica, il modo col quale si impagina, si imposta un giornale: la conoscenza della società si impara tra la gente, mettendo in atto quell’operazione di sciorinamento del terreno, di zappatura della superficie, di dissodamento della materia».

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