In breve:

Il ragazzino di Arbatax

MARCELLO MURRU

di Alessandra Secci.

Casualità.
La storia di Marcello Murru possiede questo leitmotiv: un ragazzino come tanti, in un borgo marinaro come pochi. «Arbatax è il posto di tanti ricordi, tra i suoi vicoli, i dintorni dell’Hotel Speranza e le Rocce Rosse». Ma è a Roma, a metà degli anni Settanta, che il caso comincia a colpire: il fascino della capitale attrae i compagni di liceo, e anche Marcello, che si iscrive a Scienze Politiche. «Tramite un annuncio per lezioni di italiano – racconta – fui contattato da una ragazza tedesca, appassionata di teatro, che accompagnai a un’audizione: in quella circostanza fui avvicinato da un signore elegantissimo che, inaspettatamente, mi propose per la parte del protagonista. L’uomo era Angelo Maria Ripellino, che al regista, Mario Ricci, mi presentò come “Ecco il tuo Majakovskij!”. Fra il pubblico della prima sera ci furono addirittura Fellini e Antonioni: erano anni di debutti, di prime volte, di incontri appunto, come quello, probabilmente uno dei più segnanti di tutta la mia vita, con Vittorio Gassman, di certo la persona che riconobbe in me un talento oltre la voglia di sognare».

Sanremo.
Alla riviera ligure si arriva sempre tramite uno spettacolo teatrale, dedicato ad Artemisia Gentileschi: «Il mio personaggio sussurrava un lamento in sardo, minimale, che durava 50 secondi e creava un grande pathos – continua –. Fu in quell’attimo che, tra il pubblico, un discografico della RCA, Vincenzo Micocci, produttore di Venditti, De Gregori e Rino Gaetano, rimase colpito dalla mia voce e mi propose per un provino: la musica era una mia passione, da ragazzino cantavo anche in un gruppo, ma fu un’esperienza che mai avrei pensato di riprendere. Quello stesso Natale Vincenzo mi richiamò per darmi la notizia della selezione per la kermesse sanremese e da Arbatax tornai subito a Roma, dove registrai con Liliana Ritteri e Varo Venturi il singolo Mondorama, che nel febbraio 1984 concorse nella sezione Nuove proposte».
Ma Marcello, nonostante i successi col gruppo, sente il richiamo, fortissimo, della scrittura. «Il bisogno di scrivere era prepotente, un peccato perché il progetto era meritevole di sviluppo, ma decisi di camminare da solo e, grazie ancora a Micocci, uscì nel 1990 il mio primo album da solista, Murru, nel quale concretizzavo il sogno di incidere pezzi miei. Non so perché però, ma la canzone mi pareva si consumasse in fretta: il teatro è altro, e forse per questo ho voluto sempre essere più una voce narrante, superare la distinzione tra voce e scrittura. Probabilmente mi porto dietro quel bambino che ascoltava le gare poetiche d’estate: quel modo di raccontare mi è rimasto da una vita, e l’ho fatto mio».

Scrittura come antidoto.
«La malattia fa la sua comparsa alla metà degli anni Novanta – spiega l’artista arbataxino –, dopo una lunga esperienza a teatro e l’affacciarmi al mondo della musica, inaspettata, in un momento in cui forse avrei dovuto raccogliere i frutti del lavoro di una vita. Ne ho fatto una forza: scrivere non ha mai cessato di essermi di grande aiuto e quello di appuntare su carta ciò che vedo e ciò che sento, specie in questo periodo, è diventato col tempo uno sfogo indispensabile. Un pennarello nero era –ed è – l’unico strumento con cui combattevo la malinconia, la solitudine della malattia e dei soggiorni negli ospedali».

Il Premio Tenco, Arbatax, Bonora.
«Malgrado il secco parere dei medici che si erano espressi per il no – aggiunge – dal trapianto di 9 mesi prima, a novembre, e con l’incertezza sul mio futuro, fui invitato nell’estate del 1998 da alcuni giornalisti a esibirmi al Premio Tenco. Grazie ad alcuni amici e a Lilli Greco, col quale lavorammo ad Arbatax, tornai a Roma in studio: lo volli fortemente perché significava essere vivo, presente. Quattro anni dopo esce Arbatax: un disco che continuo ad amare molto, un momento di luce dopo tanto buio, il luogo delle origini e dal quale non sono mai andato via. Anche in Bonora (2004) la Sardegna è presente; alcune tracce sono in lingua, e in questo c’è mia madre: tanto severa nel raccomandarci l’uso dell’italiano corretto quanto scrupolosa nell’utilizzo del sardo».

Diavoli storti (2021).
Il pezzo che dà il titolo all’album è un malinconico racconto alla Leonard Cohen e il video è diretto da una strepitosa Francesca Comencini. «La lunga gestazione dell’album è dovuta alla recrudescenza della mia malattia, che nel 2011 mi costrinse a guardare ancora il mostro in faccia, ma quando sono riuscito a stare meglio mi sono reso conto di non voler rinunciare a scrivere. Anche nei dischi precedenti ho raccontato i perdenti, i dimenticati, pure se ultimamente mi è parso che il mondo che osserviamo mi diventa sempre più dolorosamente incomprensibile. E mi sono interrogato, allora, su quello che può fare uno come me che scrive canzoni: il buon Lilli Greco mi ricordava sempre, almeno nei finali, di inserire quel po’ di azzurro, un po’ di luce. Ed è quello che penso della vita – conclude – nonostante non sia un propugnatore della speranza a tutti i costi, nonostante i lividi e i dolori, nonostante la vita stessa».

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