In breve:

L’attenzione al malato: una questione di civiltà

Malato

a cura di Filippo Corrias.
Eutanasia, suicidio assistito e libertà della persona. Nella complessità drammatica di simili temi, riscopriamo il punto centrale sul quale riflettere: l’attenzione al malato, alla sua sofferenza e alla sua dignità

Si sente parlare sempre più spesso di eutanasia e suicidio assistito. È come dire la stessa cosa? Cosa si intende con questi termini?

Benché entrambi i metodi siano finalizzati al raggiungimento dello stesso obiettivo, almeno nelle intenzioni dichiarate dai sostenitori, ossia quello della eliminazione della sofferenza dell’individuo malato, sono due realtà distinte.
L’eutanasia è un’azione o un’omissione, (compiuta ad esempio da un medico), che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte a un paziente allo scopo di eliminare ogni dolore. La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato a essa alcun consenso.
Nel caso del “suicidio medicalmente assistito”, invece, il soggetto non solo ha richiesto o ha acconsentito a tale pratica, ma collabora attivamente lui stesso a procurarsi la morte con l’assunzione del farmaco letale. In pochi minuti il paziente entra in coma profondo, il farmaco paralizza la respirazione e la morte sopraggiunge nel giro di mezz’ora.

La Corte Costituzionale ritiene non punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Cosa cambia dopo questo pronunciamento?

È vero che la formula “non punibile” non significa riconoscere l’aiuto al suicidio come un diritto, ma di fatto lo si rende “lecito”, almeno nella opinione della gente. Sarebbe più corretto dire che con tale pronunciamento si rende “legale” l’aiuto al suicidio, seppure a determinate condizioni: ma non tutto ciò che è legale è perciò stesso anche moralmente lecito.
Benché sia stato detto che tale decisione aveva lo scopo di stimolare il dibattito politico in Parlamento per giungere a legiferare in materia, di fatto proprio tale pronunciamento non potrà che condizionare in una direzione ben definita sia l’operato dei giudici, sia quello del Parlamento stesso. Di fatto siamo davanti a una depenalizzazione del reato di induzione o di aiuto al suicidio, secondo quanto previsto dall’art. 580 del Codice Penale, e per il quale è prevista la reclusione.

Quali sarebbero gli effetti sociali qualora nell’ordinamento italiano venisse affermata la liceità del suicidio assistito e dell’eutanasia?

Affermare che un comportamento sia “legale” è cosa diversa dal poterlo definire “lecito”. Basterebbe ricordare, in proposito, quanto profeticamente ha scritto San Giovanni Paolo II nell’enciclica “Evangelium vitae”: «uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio… e tali legalizzazioni sono del tutto prive di autentica validità giuridica (cfr. E.V. 72). Simili legalizzazioni cessano di essere una vera legge civile, moralmente obbligante per la coscienza, sollevando piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi a esse mediante l’obiezione di coscienza» (cfr. E.V. 73).
Qualora il Parlamento dovesse seguire questa linea di pensiero (come lasciano intendere alcuni disegni di legge già depositati), l’Italia non tarderebbe a divenire come quei Paesi che hanno legalizzato da anni il suicidio assistito o l’eutanasia, nei quali – come nei Paesi Bassi – si sopprimono anche i bambini con patologie gravi e non, le persone affette da demenza o da altre patologie psichiatriche e dove le richieste di eutanasia aumentano in modo esponenziale. Chi potrà arginare una deriva intellettuale che un domani potrebbe lasciar passare l’idea che persino una grave frustrazione o delusione nel lavoro o in ambito sentimentale possano essere un valido, giustificato, e persino etico motivo per “procurarsi la morte”?

Il Papa recentemente, parlando a un gruppo di medici, ha affermato: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Viene a mancare la libertà della persona umana?

Mi pare che oggi si ceda con maggiore frequenza al rischio di estremizzare il “principio di autonomia” o di rispetto della persona, che pure è un’importante conquista nel settore della assistenza medica. Ma non può essere ridotto a una acritica accettazione da parte del medico delle scelte del paziente, qualunque esse siano. La decisione del paziente può essere accolta se accompagnata da alcune condizioni: che sia libera; informata; presa con capacità di intenderla e volerla; non lesiva dell’interesse di terzi; rispettosa della dignità professionale e morale del medico; non autolesiva.
Il card. Bassetti ha ricordato che la libertà non è un contenitore da riempire e assecondare con qualsiasi contenuto, quasi che la determinazione a vivere o a morire avessero il medesimo valore. Ma come si potrà valutare il grado di libertà di un paziente in condizione di abbandono terapeutico? Se domina la “cultura dello scarto” e se la società diventa sempre più una casa abitabile solo da “forti”, da “efficienti”? Si preferisce percorrere la strada più sbrigativa di fronte a scelte che non sono espressione di libertà della persona, quando includono lo scarto del malato, o falsa compassione di fronte alla richiesta di essere aiutati a morire, quando ci si sente soli e in preda all’angoscia e alla sofferenza.
In realtà sarebbe da potenziare tutto il campo che riguarda le cure palliative, che a distanza di quasi 10 anni sono ancora poco conosciute dalla popolazione e non adeguatamente assicurate dal Servizio sanitario, come previsto dalla Legge 38.
La verità è che curare costa… e non solo economicamente! Ma per non rischiare di partecipare al tragico gioco del “chi vogliamo eliminare per primo”, è questa la cura che bisogna promuovere e garantire. Una cura farmacologica, psicologica, affettiva, spirituale, perché fondata sul vero diritto a non soffrire e a essere accompagnati con dignità nell’ultimo tratto della vita. Non è solo una questione “religiosa”. È anche una questione di civiltà. Perché il grado di civiltà di un Paese si misura da come si rapporta allo stadio della fragilità umana, soprattutto nel momento dell’inizio e in quello che volge verso la fine dell’esistenza, quando appunto la fragilità si fa più evidente.

Scheda biografica
Don Paolo Sanna, sacerdote del clero dell’arcidiocesi di Cagliari, docente di Bioetica presso la Facoltà Teologica della Sardegna di Cagliari

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>