A tu per tu con Piero Marras. La musica è libertà e comunicazione
a cura di Augusta Cabras.
Qualche mese fa ha tenuto una lezione-concerto in una scuola media di Tortolì.
Che è esperienza è stata? Si può ancora dialogare con i più giovani?
Si può certamente dialogare e la cosa bella è che hanno una disponibilità totale alla vita e anche alle novità. La musica per me è l’elemento primario formativo, che permette di comunicare e di potersi parlare intimamente. Incontri come quelli sono per me un modo per portare la musica, per consigliarla. Io consiglio la musica a tutti, è il rimedio al male di vivere, alla solitudine, è un’energia straordinaria per l’anima, per un percorso interiore serio.
Quando nasce questa passione e come l’ha coltivata?
Nella mia famiglia la musica è stata sempre presente. Io sono l’ultimo di quattro fratelli e mia madre a tutti fece studiare la musica, considerandola una componente importante della formazione. A 7 anni iniziai a prendere lezioni di piano e l’impatto non fu semplice anche perché si iniziava subito con il solfeggio. Poi smisi di seguire quelle lezioni per me così pesanti e quella fine fu in realtà l’inizio della conquista della musica, perché quando la musica smise di essere insegnamento e costrizione, divenne libertà. E allora io ero sempre attaccato ai tasti neri e ai tasti bianchi del pianoforte. È stata una scoperta e da allora non l’ho mai lasciata.
C’è stato un momento in cui ha capito che la passione poteva diventare professione?
Io sono un privilegiato perché sono riuscito a far coincidere le due cose: passione e professione. È stato un percorso graduale, anche di autostima personale che ogni tanto vacillava. Dovevo decidere a un certo punto se fare il professore di lettere o il musicista. Ho fatto tutta la gavetta; ho fatto parte di gruppi musicali, uno che si chiamava 2001, arrivò a Saint Vincent per Un disco per l’estate. A 18 anni da Nuoro mi trasferii a Cagliari e la musica mi aiutò a inserirmi, a comunicare. Suonai in diversi gruppi e questo fu molto formativo. A 24/25 anni era arrivato il momento di decidere cosa fare, nonostante a casa mia fossero molto tranquilli. A questo tipo di educazione molto libera e aperta devo molto perché mi ha permesso di continuare questa strada. Nel 1977 avevo scritto tutto Fuori Campo. Un amico di vecchia data fece ascoltare questo nastro a un direttore artistico della Emi italiana che rispose entusiasta. Capii che c’erano persone disposte ad ascoltare la mia musica. Credo che quello sia stato un momento fondamentale.
Lei canta sia in sardo che in italiano. Quali sono le differenze dal punto di vista musicale?
Sì, è diverso il suono della lingua, il suono della parola. Il sardo ha una grande peculiarità che, secondo me, ha a che fare con la sacralità che noi sardi abbiamo dentro. Noi abbiamo un senso religioso della vita, nel modo di affrontarla. Siamo molto seri, abbiamo poca leggerezza. E questo si riflette nella musica, nelle canzoni, nei testi che scegliamo. Sono spesso preghiere, cito la mia Mere manna, ad esempio. Abbiamo sempre questo riferimento all’Altro, che sia il cielo o la madre terra. Questo modo secondo me appartiene soprattutto ai sardi che hanno anche una storia non da vincitori, ma più spesso da vinti. Noi riusciamo a cantare la vita in maniera quasi spirituale. Io cerco di interpretarla, e ci sono tante sfaccettature. Io stesso non ho cantato solo canzoni spirituali, ma anche canzoni che dimostrassero che la lingua non è un fatto museale o da abbondare, ma può affiancarsi benissimo con il mio background che viene dal rock. Io non ho mai cantato la tradizione pura. Da quando ho fatto l’album Abbardente nel 1984 ho visto che qualcosa è successa, nel senso che ci è stata una presa di consapevolezza di sé anche negli altri gruppi che hanno iniziato a scrivere e cantare in sardo anziché fare solo cover.
Cosa è l’ispirazione?
Io non credo nel concetto di ispirazione come qualcosa che si aspetta. Serve cercarsi, entrare e frugare dentro se stessi, stimolarsi. Serve mettersi in movimento e in un atteggiamento di disponibilità e positività. Devi essere felice di quello che vivi, devi essere contento del tuo mondo. Io ho un mio modo di comporre: sto ore e ore, con il pianoforte o la chitarra, e suono, suono, senza sapere cosa sto suonando. Suono e poi arrivo dopo alle parole. Registro, lascio fermentare, poi riascolto in un momento in cui non ricordo nulla di quello che ho fatto e lì posso trovare elementi, idee, qualche melodia interessante da cui poi nasce qualcos’altro.
Lei è particolarmente attento ai talenti sardi. Mi riferisco anche al Campus di Energia Creativa. Da dove nasce questa idea?
Ho sentito l’esigenza di questo tempo e di questo spazio perché purtroppo non c’è nulla in Sardegna che permetta ai giovani, agli artisti di incontrarsi, sperimentare, confrontarsi. Io considero la canzone d’autore come una forma d’arte, quella dei cantautori è stata una corrente letteraria, e lo scambio è fondamentale. Le scuole che sono nate in Italia, avevano un grande vantaggio, che avevano dei luoghi di incontro e di scambio: pensiamo al Folk Studio di Roma, le osterie a Bologna ecc., fondamentali per creare, costruire, pensare, cantare insieme. Il Campus di Energia Creativa ha questo scopo: convoco gli artisti per stare insieme tre giorni per fare musica, ci si racconta, ci si mette insieme, si suona e si canta in un posto che deve essere bello, perché la bellezza della creatività si sposi con la bellezza del territorio. Una sorta di buen ritiro della musica, senza gare, votazioni, dove la musica è al centro e al centro sono gli artisti; senza competizione perché la competizione è la negazione della musica che invece è comunicazione.
Storie liberate è un altro suo importante progetto musicale e sociale.
Un progetto che ha attinto dal materiale presente negli archivi delle carceri sarde scansionato dai detenuti. Vittorio Gazzale mi ha coinvolto e mi sono appassionato, il progetto mi ha coinvolto molto. Il carcere è un luogo di cui non si parla o si parla poco e purtroppo in molti casi peggiora la vita di chi ci entra. Alcune delle storie racchiuse in quelle tantissime lettere censurate e abbandonate, di anime tormentate ma belle, sono state liberate, tolte dall’oblio e sono diventate canzoni. C’è molta vita in quelle parole, molto amore, umanità, fragilità, sofferenza, ma anche speranza.
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