Volti e persone

La casa della signora Rosa
di Fidalma Mameli.
“Mi chiamo Rosa Marceddu, sono nata a Gairo e ho 93 anni. Mi sono sposata all’età di 16 anni con Giovanni Boi, che mi ha lasciato nel 1997 dopo 57 anni di vita amorevolmente condivisa. È stato un grande dolore, ma un dolore ancora più grande è stato per la scomparsa di mia figlia Carmen, qualche anno fa. Ve lo assicuro: non c’è dolore più grande della perdita di un figlio, e non lo auguro a nessuna madre, neanche se mi fosse nemica. Ma il Signore mi ha dato forza e conforto per andare avanti. E sono qui, addolorata, malata, ma assistita e coccolata da tutti i miei figli, sei femmine e un maschio. Mi mancano le attenzioni e le coccole di lei, quelle di Carmen.
E cosa vuole che le dica della mia vita? Tutta piana di problemi. A cominciare dalle alluvioni. Ricordo quella del 1940, in ottobre, ero sposina da 15 giorni. Eravamo ancora a Gairo e abbiamo vissuto giorni di paura. Molte case furono danneggiate, il paese fu dichiarato in pericolo, per alcune famiglie furono costruite delle abitazioni a monte di Gairo, in Bingias de susu, dove attualmente è la Gairo Nuova. Quando c’è stata quella del 1951, abitavamo nella nostra casetta in campagna, a Buoncammino, avevamo già 4 figli. C’erano poche case abitate, distanti l’una dall’altra; l’ingrossamento del fiume, che aveva straripato inondando tutta la piana, ci aveva isolato dal resto del mondo; dal paese nessuno poteva portarci soccorsi e viveri. Ho molto vivo il ricordo di un ragazzo, solo, rimasto senza niente da mangiare, che aveva timidamente bussato alla mia porta per avere un tozzo di pane. Le prime cibarie ed altro genere di aiuti di prima necessità ci sono venuti dalla casa di signorina Agostina Demuro di Barisardo. Al tempo, la vita è stata molto difficile, mio marito ed io abbiamo lavorato veramente tanto con sacrificio. Non avevamo la luce elettrica, non avevamo ancora il pozzo nella nostra tenuta e mi portavo l’acqua con la brocca da casa di zia Angelica Boi; andavo a fare il pane da zia Mariedda Usai, donna tanto buona che mi dava sempre una mano. L’ho stimata come una mamma, così come zia Peppina Caboi Cannas. Poi, finalmente, ho avuto il mio forno. Col passare degli anni siamo riusciti a valorizzare il nostro terreno e a costruire una casa più grande e più comoda. Abbiamo insegnato anche ai figli a rendersi utili. Quando c’era da spietrare, ognuno, armato di secchiello, ci veniva dietro e lo riempiva di sassi. Parìa una pudda pillonada. Andando avanti, passo passo, chiedevo all’uno o all’altro: 7×7?; 4×5? ; 9×6?…; oppure davamo dei problemini da risolvere. Lavoro e studio nello stesso tempo…
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La “figlia” delle suore
di Tonino Loddo.
«La mia famiglia sono state le suore e le ragazze dell’Istituto». Tua madre, tuo padre? «Avevo due anni, quando mia madre è morta (1969, ndr). E mio padre non sapeva che farne di quel fagottino malaticcio che ero». Racconta serena, come chi i guai della vita li ha sperimentati tutti. Non un’ombra ne increspa il sorriso, né mai la frena il dolore o l’imbarazza il pudore. «Così, babbo mi ha portato dalle suore della Redenzione a Lanusei. Ero la più piccola. Ho ricevuto coccole da tutte. Lì ho imparato anche a dire mamma: così chiamavo la ragazza più grande che mi accudiva, mi teneva in braccio, mi dava da mangiare e mi faceva giocare… Ma ho avuto anche altre mamme. Suor Bernardetta e madre Grazia, prime fra tutte. Non capita a tutti la fortuna di avere tante mamme!». Riesce perfino a scherzare, Tiziana, che in quella casa serena sorta quasi per magia tra le viuzze della vecchia Lanusei, grazie alla dote di madre Rosa (Leontina Cannas), ha trascorso più di trent’anni.
Appena riesce ad acquisire un minimo di autonomia, inizia a frequentare l’asilo delle suore Giuseppine: «Ero la più piccola. Tutti mi volevano bene». La memoria dell’affetto ricevuto nell’infanzia sembra accompagnarla sempre, donandole sicurezza ed infondendo coraggio. Via – le dico, giusto per provocarne la reazione -, madre Grazia era molto severa! «Severa? No di certo. Era sempre molto dolce e affettuosa. Madre Grazia mi ha tenuto come una figlia!».
Mai sentito il richiamo della famiglia d’origine? Davvero nessuna nostalgia? «Sì, per Natale mio padre mi invitava a tornare a casa. Ricordo quella volta che mi disse: “Vieni, vieni, ti ho comprato una bella cameretta, tutta per te. Vedrai come ci starai bene!”. Così accadeva talvolta che a Natale andassi a casa a trovare mio padre. Ma ci stavo pochi giorni. C’era una specie di disagio. Le suore e le mie compagne dell’Istituto erano ormai diventate tutto il mio orizzonte di vita e la voglia di tornare tra esse era talmente forte che chiedevo ben presto di esservi nuovamente accompagnata, anche se le vacanze erano appena iniziate. Avevo nostalgia, sì, ma dell’Istituto».
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Quell’urlo sui binari
di Sofia e Letizia Mascia.
Ha 92 anni suonati, zia Giovanna Pes. Dopo sua sorella Assunta (maggiore di due anni) è la più anziana di Taquisara. Aveva solo 14 anni (1939) quando, insieme alla propria famiglia, vi giunse, proveniente da Villacidro.
«Quando siamo arrivati qui, eravamo in tanti. Oltre alla mia famiglia, composta da tre fratelli (Isidoro, Pasquale e Franco) e due sorelle (Assunta e Regina), con noi c’erano anche le due nonne: dieci persone in tutto. Ma non stavamo male. Mia madre faceva la casellante al passaggio a livello e mio padre faceva il manovale della ferrovia. Azionava gli scambi, curava il magazzino e la stazione. L’avevano mandato qui, dove c’era tanto da lavorare, perché all’epoca il paese stava crescendo sia perché dopo l’alluvione del 1927 lo Stato aveva deciso di trasferire qui una ventina di famiglie di Gairo perché qui c’era acqua buona e non c’era pericolo di frane, e sia perché qui c’erano molti ferrovieri perché c’era il centro di manutenzione dei mezzi. Allora lo chiamavano Gairo Littorio, perché il fascismo aveva cambiato l’antico nome di Genn’e ua. Il Genio Civile aveva anche costruito delle case per ospitare gli sfollati e le aveva consegnate alle famiglie che venivano da Gairo, dando 2/3 stanze a famiglia che si aggiungevano agli alloggi dei ferrovieri. Così, pian piano il paese è cresciuto e si sono formare nuove famiglie perche le giovani si sposavano con i ferrovieri e la gente del paese, e siamo diventati quasi tutti parenti.
Ci trovavamo bene. Era un bel posto…
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Manuela Mameli: il canto, che passione
di Augusta Cabras.
Giovanni Mameli , nonno di Manuela, era un cantadore. Con su sonettu e la sua voce rallegrava le serata in occasione delle feste o di incontri informali. Forse Manuela, e suo fratello Giovanni, batterista venticinquenne, hanno ereditato dal nonno questa passione per la musica. Tra i vari impegni di Manuela c’è la direzione del Coro Polifonico Santa Lucia di Triei e l’insegnamento di canto moderno e corale nell’Ass. Le Ginestre, con il delicato compito di far emergere e crescere il talento di chi sente per la musica un amore profondo.
È verosimile pensare che Manuela Mameli, appena nata, non abbia pianto come fanno i bambini quando varcano la soglia del mondo, ma abbia cantato. Un bel vocalizzo in quel giorno di maggio del 1988, un do-re-mi-re-do, così, tanto per iniziar bene. Perché davvero Manuela non ricorda un tempo della sua vita che non sia stato accompagnato dalla musica. A partire dall’ascolto di quelle musicassette scelte, custodite e ascoltate dai genitori. Manuela è piccolissima eppure quelle melodie la incantano. Da Lucio Battisti a Joe Cocker, da Baglioni ai Police. Appena impara a scrivere, fa seguire all’ascolto dei brani la trascrizione dei testi: parola per parola, verso dopo verso. C’è tutto in questo gioco musicale della piccola Manuela: musica, testi trascritti e via via anche la sua voce pronta a ripetere i versi e a disegnare le armonie. Ogni oggetto in casa si trasforma in microfono, il soggiorno diventa palcoscenico, tempo e luogo dei sogni, in attesa di calcare quello vero. La prima occasione per salire su un vero palcoscenico per cantare con un microfono (vero) per un pubblico che applaude, è il Festival del Bambino, a Triei. Manuela ha 7 anni, l’emozione è fortissima e il ricordo ancora oggi le illumina lo sguardo. I suoi genitori comprendono che per Manuela la musica non è solo lo sfondo delle sue giornate o la colonna sonora di momenti speciali ma è in lei, sempre, continuamente, con una passione crescente che coltiva con impegno, dedizione e senso di responsabilità abbastanza raro per l’età.
In quegli anni a Triei, così come ancora oggi, c’è un bel fermento musicale con tanti musicisti appassionati e qualche band. Manuela fa il suo primo incontro importante proprio allora e il suo primo maestro è il batterista Ercole Monni. Con lui muove i primi passi nel mondo della band; è lei la voce de I labirinto, gruppo musicale composto da batteria, chitarra e tastiera. Manuela ha circa 14 anni. In uno scantinato ben allestito si provano musiche e arrangiamenti misti a risate e tanto divertimento che segnano i pomeriggi di un’adolescenza piena di scoperte e di passione. Quella stessa che l’accompagna nelle prime serate fuori porta, nei paesi vicini e nei piano bar, sotto l’occhio vigile dei genitori che l’accompagnano sempre, nonostante le distanze da percorrere, nonostante la stanchezza che, oltre la mezzanotte, inizia a farsi sentire. Sono anni di serate, concerti, concorsi, provini. Manuela cresce e oltre la musica c’è sempre la scuola, le lezioni studiate con la radio accesa e poi il diploma di ragioneria a cui segue una scelta importante che si rivelerà essere una svolta. Manuela decide, supportata sempre dalla famiglia, di iscriversi al Conservatorio di Cagliari. Fa l’audizione per accedere alla Scuola di Jazz e frequentare il triennio di canto e viene ammessa. È il momento di cambiare vita, a partire da una città ancora tutta da scoprire, nuovi amici da conoscere, nuovi studi da intraprendere, non senza qualche difficoltà perché la scuola e la nuova vita sono impegnative…
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Vita di mare: Flavio Vitiello
di Giulia Morgante.
Intorno ai primi del Novecento, furono tanti i pescatori ponzesi che sbarcarono ad Arbatax in cerca di aragoste. Tra essi anche Silverio Vitiello che sposerà Tommasa Maddanu, una bauneese doc, dai quali nascerà Flavio, classe 1930.
Arbatax, quando vi giunsero i primi ponzesi, era un piccolo agglomerato di case in cui si viveva di tre principali attività: la pesca, il commercio e l’estrazione in cava. Si commerciava principalmente in carbone per uso domestico, che proveniva dai paesi dell’interno come Baunei ed Arzana e che veniva mandato in Spagna; ma vi giungeva anche il carbon fossile che proveniva da Seui, utilizzato negli alti forni e mandato a Civitavecchia. Quanto al lavoro in cava, consisteva soprattutto nell’estrazione della pietra destinata alla costruzione del molo. A fare da cornice a questo minuscolo quadro commerciale erano una chiesetta, un piccolo forno, una scuola che contava un unico stanzone per tutti i bambini e poche casettine basse fatte di pietra e tegole.
In una di queste casette, nel 1930, nacque Flavio. Cresciuto in banchina, tra i pescatori, da subito prese confidenza con il mare; iniziò, infatti, a lavorare fin da bambino, accompagnando il padre a Tortolì per vendere il pescato, che era trasportato dentro a delle grandi cesta che i pescatori portavano sulla testa. Aveva solo 13 anni quando il porto di Arbatax fu bombardato e con la sua famiglia conobbe il dolore della partenza; per paura del possibile ripetersi di bombardamenti, si rifugiarono, infatti, a Baunei, paese d’accoglienza per molti sfollati arbataxini, dove rimasero per molti mesi, Fu allora che Flavio cominciò spesso a scendere a piedi scalzi da Baunei per portare qualcosa da mangiare al padre rimastovi per lavorare.
Dopo l’armistizio, la famiglia tornò definitivamente ad Arbatax. Un ritorno che segnerà per sempre la sua vita: sarà pescatore, un lavoro pesante e faticoso, che non conosceva differenza tra notte e giorno.
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B&B art studio La casa dei ricordi
di Fabiana Carta.
Nostalgia e ricordi, infanzia e legami. Questa storia nasce nel centro di Baunei, in una casa che è diventata custode e contenitore di ricordi, di antiche storie affascinanti, di fuochi accesi, di calore umano. Si snoda tra l’Abruzzo e la Sardegna, unite da un filo conduttore che è il sentimento, l’affetto, il rapporto indissolubile tra una bambina e sua nonna.