In breve:

Ernesto Olivero: “Non sono un pacifista, sono un pacificatore”

Olivero

Alcuni stralci dell’intervista a Ernesto Olivero, fondatore del Sermig – Arsenale della Pace di Torino, intervistato alla Pastorale del turismo dalla giornalista di Avvenire, Marina Corradi, e insignito del Premio “Persona Fraterna” 2022

Ernesto Olivero, lei la carità, prima di tutto, dove l’ha imparata e da chi?

C’è un modo dire: l’occasione rende l’uomo ladro. Noi volevamo essere un gruppo missionario e siamo stati cacciati brutalmente, senza una ragione. Avevamo il diritto di criticare, avevamo la voglia di dire che certe persone erano indegne. Eravamo ragazzini. Io dico una frase che poi ci ha spaventato: amici, un mese di silenzio, Dio ci sta parlando! Un ragazzo mi risponde: ma sei scemo? E io dico: scemo sarai tu! La chiesa è Gesù, non certi cretini che pensano di essere Chiesa. La Chiesa è Gesù. Io non mi metto contro Gesù, io voglio bene a Gesù. Un mese di silenzio. Piangendo. Siamo entrati nel mistero. Dopo un mese questo mistero è diventato desiderio: andare dal card. Pellegrino a portare le nostre ragioni. Noi non sapevamo neanche chi fosse un cardinale. Da lì è iniziata la nostra storia. Abbiamo detto al cardinale che volevamo formare un piccolo gruppo missionario che lavora nella chiesa. Lui ci ha accolto, voluto bene e ci ha dato una possibilità. Lui era amico di Paolo VI. Io gli dissi: vorrei andare dal Papa a dirgliene quattro! E lui dice: scrivi una lettera, me la fai leggere e poi ti dirò. Io scrivo questa lettera con tutto l’amore che ho dentro e gliela porto. Lui dice: la condivido anch’io, magari dal Papa non ti mando, ma da qualcuno vicino sì. Mi manda a Roma dal Segretario, gli parlo con il cuore in mano e lui mi porta dal Papa. Lo incontro, gli dico tutto. Mi abbraccia e mi dice: faccia lei quello che ha detto a me, perché io spero in Torino, terra di santi, per una rivoluzione d’amore. Ecco, il card. Pellegrino e Paolo VI sono stati uomini buoni, onesti, cristiani, che ci hanno aiutato.

Lei era un impiegato nella Banca San Paolo di Torino in tempi il cui il posto fisso era la manna. A un certo punto decide di mollare e di darsi al volontariato. Cosa ha mosso questa scelta così radicale?

Mi ero innamorato del card. Pellegrini. Io lavoravo, ero già sposato, avevo tre figli, ma in quel momento, a un certo punto, mi era sembrato di aver avuto un’illuminazione. Vado a dire al cardinale che avevo deciso di licenziarmi dalla banca. Mi aspettavo che mi abbracciasse, mi dicesse che ero il suo eroe, e lui con severità mi dice: quando Dio lo vorrà, Lui ti darà un segno. Io andai via triste. In banca feci una carriera interessante, ma poi un giorno mi telefonò un amico di Padre Pio che mi disse: se lei crede si può licenziare. Amici, Dio esiste! È qui.

Il cristiano debole vorrebbe tanto poter dire come lei: Dio è qui. Ma anch’io Gesù Cristo non lo vedo. Lei con Gesù Cristo parla come parlerebbe con una delle persone che vede da vicino?

Certamente. Soltanto che bisogna arrivarci con i tempi di Dio, pregando, facendo della propria vita, lentamente un servizio continuo agli altri, e la preghiera deve diventare il mio respiro, il mio tutto. Ci vuole tempo, non bisogna pretendere nulla, bisogna entrare in questa ottica e allora con Gesù ci parli, ti sorregge. Nella nostra storia abbiamo ricevuto delle vigliaccate inenarrabili, ma non le abbiamo mai ricambiate, delle ingiustizie brutte, da parte di uomini che avrebbero dovuto sostenerci, amarci, indicarci la strada buona. Ma non abbiamo mai ricambiato il male con il male, non abbiamo la faccia triste, la faccia piena di rancore. Noi preghiamo anche per queste persone, e siamo pacificati con loro.

Nietzsche diceva: crederei in Gesù Cristo se i cristiani avessero la faccia da salvati. Invece molti cristiani, me compresa, hanno la faccia triste, sopraffatti dalle difficoltà o da una malinconia che non ha una ragione precisa. Concretamente, qual è l’inizio di questa strada?

Bisogna farsi aiutare. Bisogna incontrare persone belle. Se io incontro una persona bella, dico: io voglio essere come lui. Se incontro una persona infingarda, io dico: io non voglio essere così. Noi ogni volta, in fondo, giudichiamo. Decidiamo di stare di lì o di là, ma poi dopo serve farsi aiutare, avere degli amici intorno. Da soli ci si intristisce.

Mi ha colpito quando lei, all’inizio della pandemia, disse che in quel periodo davate accoglienza a centinaia di persone, ma i vostri magazzini si riempivano di nuovo e sempre, come accadeva a Madre Teresa. Nella realtà degli uomini le dispense delle case non si riempiono se non si va al supermercato. Sembra che voi viviate in una modalità “altra”, rispetto alle persone comuni.

Non saprei rispondere. È la gente che viene da noi. Non c’è mai mancato un centesimo eppure non abbiamo mai chiesto soldi. Da sempre noi facciamo il gesto della restituzione. Negli anni Sessanta, quando siamo nati, avevamo deciso di fare sempre due gesti: pregare in modo semplice, non sapevamo fare di meglio, e poi mettere in un piccolo sacchetto tutto quello che potevamo in segno di restituzione.

Restituzione di che cosa?

Questa parte di mondo ha rubato e noi dobbiamo restituire a chi ne ha diritto. Ma l’abbiamo scoperto senza fare un’analisi politica. Ce lo siamo detto tra noi. E poi siamo diventati amici di gente meravigliosa, di uomini santi, di giovani e bambini, ci siamo impastati lentamente. Se pensate che l’Arsenale era un rudere e che per ristrutturarlo c’era bisogno di 400 miliardi, vi renderete conto che non l’abbiamo fatto noi, ma la Provvidenza. Noi ci abbiamo messo solo le nostre mani.

Cosa ha pensato la mattina del 24 febbraio alla notizia dello scoppio della guerra tra Russia e Ucraina?

Io ho subito chiesto di andare da Putin perché so che il Signore mi ispirerà delle parole. Poi mi sono ricordato di Giorgio La Pira. Un giorno lo chiamai, gli dissi che avevamo formato un gruppo e se poteva ricevermi al telefono. Mi disse di andare da lui: rimasi più di tre ore, parlò tantissimo, citò Isaia, profeta di Dio. Isaia disse: l’uomo non deve imparare più l’arte della guerra, non deve più costruire le armi. Io ho abbracciato questa filosofia. Basta armi! Basta guerre!

Io ammiro il pacifismo che esorta al dialogo, che prega, che spera nella diplomazia, ma se io fossi stata una madre con i miei figli davanti ai carri armati, io non credo che sarei stata pacifista.

Ma neanche io sono un pacifista. Io voglio essere un pacificatore, voglio portare giustizia, concretezza, non stare da una parte o dall’altra. Noi siamo pacificatori, abbiamo accolto 150mila persone, donne e uomini violentati, colpiti. Noi accogliamo chiunque desideri cambiare vita. Possiamo fare tantissimo perché tantissimi giovani stanno dando la vita per essere pacificatori.

 

Ernesto Olivero è nato nel 1940. Nel 1964 ha fondato a Torino il Sermig, Servizio Missionario Giovani, insieme alla moglie Maria e a un gruppo di giovani decisi a sconfiggere la fame con opere di giustizia, a promuovere sviluppo, a vivere la solidarietà verso i più poveri. Negli anni ’80 all’interno del Sermig nasce la Fraternità della Speranza. Ha trasformato l’arsenale militare di Torino in Arsenale della Pace dal 1983.

Alla Pastorale del Turismo della diocesi di Lanusei e di Nuoro gli è stato conferito il Premio “Persona Fraterna” 2022.

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