In breve:

La festa in Sardegna. Un tempo che dà senso al tempo

LA SFILATA DEI PANNI COLORATI

di Roberto Caria
In un’epoca che tutto misura in termini di produttività e che considera il lavoro come unico scopo dell’esistenza, la festa è lì a ricordarci che l’accoglienza, la relazione e la gratuità sono elementi co-stitutivi del vivere umano.

Come tutti i popoli, soprattutto quelli che per motivi geografici o storici hanno tratti maggiormente identitari, anche i sardi in genere si riconoscono nelle proprie feste e si rappresentano e si raccontano mediante le proprie feste.
I vescovi sardi riuniti nel recente Concilio Plenario hanno riconosciuto come «il popolo sardo cu-stodisce un suo millenario patrimonio di tradizioni religiose cristiane, armonizzando, secondo un proprio timbro inconfondibile, apporti provenienti nei secoli dal Nordafrica e dall’Oriente bizantino, dalla penisola italiana e da quella ispana» (La Chiesa di Dio in Sardegna, n. 112,1).
Ma prima di fare alcuni brevi cenni al senso antropologico e religioso della festa nella nostra Isola, ci sembra utile soffermarci con Josef Piepier (il noto filosofo cattolico tedesco recentemente scomparso all’età di quasi cento anni) sulla distinzione tra l’otium e il negotium, tra la festa nel contesto antico e l’idea moderna del momento festivo.
Ora, già Aristotele affermava che «si lavora per aver otium» (Etica a Nicomaco 10,7), e che «la le-gislazione è in funzione della pace e di procurare il giusto otium per i cittadini» (Politica, 8,3). Se-condo Pieper (Otium e culto, 1956) la differenza tra la nostra idea di lavoro e quella antica è tale per cui non siamo più in grado di comprendere con immediatezza quanto affermavano gli avi dicendo che si lavora per avere otium (p. 37). Questo soprattutto perché il mondo moderno ci ha portati al «mondo totalitario del lavoro» (p. 41), per cui tutto deve essere attività produttiva.
Purtroppo oggi l’otium è inteso come qualcosa di estraneo, stonato, sconveniente, inutile, sinonimo di ozio e accidia. Nel medioevo invece si riteneva che dall’accidia nascesse l’attivismo, il lavoro senza respiro, la frenesia produttiva (Acedia in latino è “la disperazione della debolezza”).
Ma come lo intendevano gli antichi, «l’otium non è l’atteggiamento di chi assale, invade, ma di chi si apre accogliente, di chi si distende abbandonandosi […] è lo stato dell’immersione intuitiva e contemplante nella realtà» (p. 61).
Il nucleo dell’otium dunque è l’atteggiamento festivo, il far festa. E la festa è l’unione di tre elemen-ti: distensione, assenza di fatica, procurarsi otium, per questo la radice dell’otium è il culto. Non c’è festa senza divinità, non c’è festa che non sia nata dal culto, che non conservi il carattere festivo perché continua a ricevere vita dal culto (p. 78).
Anche nella nostra terra la festa ha avuto, e in qualche modo continua ad avere, tale solido fonda-mento antropologico e religioso. E proprio per questo essa ha un carattere identitario. Non è un caso che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando era usuale presso gli studiosi di an-tropologia descrivere le caratteristiche peculiari delle varie etnie, i viaggiatori stranieri notarono il ruolo centrale che la festa aveva nella vita del popolo sardo. Anche nella pittura sarda di fine Otto-cento – inizio Novecento la rappresentazione della festa è un tema dominante: pensiamo a Giovanni Marghinotti (Festa campestre in Sardegna, del 1861), Giuseppe Biasi (Grande festa campestre, 1910-1911), oppure le scene festive immortalate sulla tela da Filippo Figari. Troviamo anche nella letteratura il tema della festa campestre e soprattutto delle feste lunghe presso i novenari campestri (pensiamo ai romanzi di Grazia Deledda).
Ancora il Concilio Plenario Sardo II ci ricorda le caratteristiche delle feste che originano dalla reli-giosità popolare, ricordandone le espressioni comunitarie più significative, come le novene, i tridui, le processioni; i pellegrinaggi, la Via Crucis; le feste patronali, la venerazione delle reliquie …, e ricordando anche come dentro tale contesto sia fiorita tutta una tradizione di preghiere e canti in limba sarda, che oggi si sta degnamente valorizzando.
Un elemento fortemente identitario delle feste sarde sono i novenari campestri. Durante queste feste lunghe i devoti alloggiano per tutta la durata delle celebrazioni in onore del Santo titolare della chiesetta nei piccoli alloggi (cumbessias o muristenes) che circondano il santuario, secondo una struttura architettonica già nota in epoca nuragica. Sembra che in questo tempo che è altro dalla quotidianità, e in uno spazio altro rispetto alla normalità feriale, i sardi vivano una speranza prati-cata. Vale a dire, in questi giorni vivono la speranza di una realtà sociale che non è possibile nella quotidianità se non come attesa di redenzione e di senso. La speranza di rapporti umani più giusti e fraterni fondati sulla gratuità e l’accoglienza (le case dei novenanti in genere sono sempre aperte a tutti in ogni momento della giornata), la speranza di una economia non finalizzata all’accumulo di pochi, ma a un equilibrio distributivo in cui chi più possiede, più condivide. La speranza di rapporti politici in cui l’esercizio dell’autorità è in funzione del bene comune, non di una èlite ristretta.
Dunque per i sardi la festa continua ad avere un carattere sacro e indentitario perché non è, secondo la tendenza introdotta col predominio dell’economia sulla società, semplice tempo libero e svago dall’attività produttiva, ma tempo dell’otium come del tempo del gratuito che dà senso anche al tempo della produzione. Tempo dell’accoglienza, della relazione, delle arti liberali. Momento in cui celebrare con rituali religiosi e sociali il senso del faticare quotidiano, tutto orientato verso una spe-ranza umana di riscatto. Per il cristiano, verso la vita eterna.

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