In breve:

L’impossibile arte di consigliare

GIULIA

di Tonino Loddo

Prima di insegnare agli ignoranti, e prima ancora di pregare Dio per i vivi e per i morti, la Chiesa da sempre ci chiede di consigliare i dubbiosi.  La storia di Giulia Aresu, ottant’anni, di cui oltre sessanta passati a Baumela ad ascoltare le mille storie di giovani e meno giovani che soffrivano e soffrono il dramma dell’incertezza.

La Costa Smeralda è solo un paradiso per i pastori. È il 1954. Negli stazzi, da Austena a Baldu, da Nuditta a Berrules, si vive una vita spartana. Cultura, prossima allo zero. Proprio in uno di quegli stazzi riceve il suo primo incarico da insegnante, diciott’anni appena compiuti. Giulia parte. Scuola popolare, educazione di base per bambini e adulti. Uno stanzone per far lezione, uno stanzone per dormire. Non c’è luce, acqua corrente. E neppure servizi igienici. La padrona di casa, vedendola così giovane, le dà per compagnia alla notte la propria figlia minore. Almeno non è sola. Lezione al mattino, alla sera, quando capita. Non pochi alunni sono sue coetanee e certi marcantoni di giovanotti, quasi tutti più grandi di lei. Ma le vogliono bene. E insegna a leggere, a scrivere, a far di conto, come si conviene ad una diligente maestrina. Un giorno un giovanottone, ventiquattro anni ben portati, bestemmia. In classe. A voce alta. Tutti si voltano. Giulia alza gli occhi e lo fissa a lungo. Non lo rimprovera, ma tutti capiscono quello sguardo. A fine lezione se ne torna nel suo alloggio. Per fortuna le lasciavano sempre il fuoco acceso nel grande camino. Una cena frugale. Poi, con le tenebre, la lunga notte invernale. La bimba si addormenta. Giulia, accanto al camino, tenta di leggere qualcosa. Non ha sonno. «Sa ma’..!». Le sembra che qualcuno picchi alla porta e la chiami. No, non può essere che qualcuno chiami a quell’ora. «Sa ma’…! Sa mastra!». Non ha paura. Apre. È il marcantonio della bestemmia, cappello in mano. Comincia a parlare. Gli fa cenno di entrare e, soprattutto, di abbassare la voce per non svegliare la bimba. Siedono accanto al camino. Il ragazzo farfuglia scuse. «Non è con me che ti devi scusare ma con il Dio che ti ha creato e che ti mantiene in vita, e con i tuoi compagni». Ma non è solo quella la ragione della visita. In verità, è che lì, in quello stazzo sperduto, lui non ci fa nulla; vorrebbe partire, avere un lavoro suo, dare fondamento e certezze alla sua vita. Ma non sa come fare. Giulia sorride. E proprio a lei viene a chiedere consiglio? E a quell’ora di notte? Parlano a lungo. Soprattutto, lo sta a sentire. Devono essere le due, o forse più tardi, quando il ragazzo va via. Lo incontrerà nuovamente solo molti decenni dopo. «Il discorso di quella notte – le dice – non ha neppure sfiorato la terra».
Aveva appena finito gli studi magistrali a Cagliari ed aveva fatto la prima Comunione a 11 anni («In casa mia mi avevano insegnato la carità, ma non il catechismo», dice). Eppure era stato mons. Basoli in persona a chiederle di occuparsi di giovani. L’estate precedente l’aveva trascorsa a Baumela a dirigere il campo regionale della GIAC, un campo di soli maschietti. Roba da non credere! Ci aveva provato a scansare l’invito. Ma il vescovo era stato inflessibile: «E lei ha paura dei suoi diciotto anni?», le aveva risposto. E da allora, così, estate dopo estate, per oltre sessant’anni. E ancora oggi.
E quanti ne ha visto passare a Baumela, di ragazzi! Con nella testa un chiodo fisso: «qui tutti si devono sentire accolti». Negli anni Cinquanta e Sessanta i campi GIAC e GF, poi – in principio degli anni Settanta – i campi giovani e giovanissimi di ACI. Accanto a giovani poi diventati professionisti affermati, come Enzo Usai, Lisetta Stochino, Antonio Pinna Vistoso, Natalia Pilia, Tarquinio Ladu e don Antonio Demurtas, don Luigi Ligas … Al nome di don Ligas, Giulia sorride: ne ricorda l’infaticabile attività che neppure l’asma sapeva contenere. E le riunioni di antenna a notte fonda, nell’alto silenzio del campo, per programmare le attività del giorno successivo. Lei la prima ad alzarsi e l’ultima ad andare a letto. E l’emozione, quella notte che nella cappellina aveva lasciato alcuni giovani che pregavano seduti per terra. Lei era andata a letto perché era davvero stanca, li conosceva bene, poteva fidarsi di loro. Purché al termine chiudessero la porta. E l’indomani mattina aveva un po’ mormorato tra sé, scorgendo da lontano la porta semiaperta. E lo stupore al trovarci dentro ancora quei ragazzi…
Poi la stagione di Paola Staffa, Andrea, Cristina, Marisa, Tonino, Luigi, Carmen, Anna, Mario … Ogni estate a Baumela. Per decenni. A parlare con tutti. E per il direttore di campo che non condivideva gli atteggiamenti di qualche ragazzo, aveva sempre la risposta pronta: «Ci parlo io». E passava le ore del dopo pranzo e della sera sotto la grande quercia a parlare con i ragazzi e i meno ragazzi. Alla fine, era diventata la mamma dei campiscuola. Credibile e trasparente, tra il suo dire e il suo agire non esisteva cesura. I suoi consigli di vita giungevano a tutti come espressione di amore, perché parlava al cuore, interpretando la condivisione e la misericordia come forma e anima dell’agire cristiano. Così, le sue parole entravano nell’intimo della mente e chi le riceveva si sentiva amato e mai giudicato. Con don Armando Loi, che di quei campi era l’animatore spirituale, sapeva farsi carico di giovani perplessità e fragilità, maestri in un’arte invidiabile, quella del saper dubitare e ricercare con chi avevano dinanzi. Non con l’arroganza di chi possiede la verità, ma con la passione e il desiderio di ricercarla insieme, pur sapendo di avere già ricevuto in dono la certezza della fede.
Aveva imparato da don Ligas ad essere infaticabile. Perché il ministero dell’ascolto e del consiglio lo esercitava dopo aver ampiamente sfaccendato in cucina a preparare e organizzare pranzi e cene, convinta che accogliere e consolare non riguardasse solo lo spirito, ma anche il corpo. E se anche qualcuno protestava, i culurgiones per la giornata di fine campo bisognava prepararli comunque …

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