In breve:

Quando anche l’ammonire è carità

don bisi

di Tonino Loddo
«Sgridare? Mai. Sempre confortare e aiutare». Parla sottovoce, quasi scusandosi. Ma le parole sono ancora tutte chiare e giungono diritte, nonostante i 94 anni. «E allora? Cosa decidi di fare? Perché sei tu che devi decidere. Io ti posso solo indicare la strada, ma non posso sostituirmi a te». Così, con questa disarmante ovvietà, ha affrontato anche i casi più difficili e drammatici.

Ricorda ancora la prima volta, don Bisi. Era stato appena ordinato sacerdote, a Baunei, in quel torrido inizio d’agosto del 1947. E l’avevano chiamato in un paese vicino. C’era la festa. Era giunto per tempo, e gli avevano chiesto di confessare. La chiesa era già piena di fedeli e il povero parroco non riusciva a far fronte a tutte le richieste. «Mi venne il batticuore. Mi sentivo importante, certo, perché ministro della Misericordia di Dio. Ma provavo anche paura. Mi chiedevo: chi sono io per giudicare? Mi sentivo piccolo, inadeguato». Beh!, ma in seminario avrà ben ricevuto le istruzioni opportune e i canonici l’avranno anche sottoposto all’esame di idoneità a confessare! «No, nessun esame e nessuna istruzione. Il vescovo il giorno stesso dell’ordinazione mi aveva detto: da oggi tu puoi confessare». E lui s’era trovato lì, con i suoi venticinque anni appena compiuti, a doversi avviare verso il confessionale. Si inginocchiò nel primo banco della chiesa. Fu una preghiera intensa e commossa. «C’è un solo modo per prepararsi ad ascoltare le confessioni. Pregare». Per poi aggiungere, dopo qualche secondo di silenzio, quasi assaporando il suono di mille passate emozioni: «Confessare mi spronava ad essere migliore».

Così aveva iniziato a capire che ammonire è gesto di carità e pian piano aveva iniziato a costruirsi dentro quell’atteggiamento paterno di accoglienza e di attenzione alle persone che caratterizzeranno i tanti decenni di vita pastorale a Ilbono prima e poi a Seui. E pian piano aveva anche imparato a considerare il confessare come una vera opera di misericordia nei confronti di coloro sui quali la sua mano benedicente faceva scendere l’Amore di Dio, perché li aiutava a comprendere le conseguenze di scelte che spesso non erano in grado di valutare, deformati dall’illusione di poter sempre cambiare comportamento quando lo avessero deciso e prescindendo dal forte sostegno della Grazia. Quante sofferenze si potrebbero evitare se sapessimo ammonire con vera carità!, mormora.

«Io vi aiuto ad essere migliori». Questa era la sintesi di ogni sua catechesi sul sacramento della Penitenza, per poi aggiungere che «il tempo passato a confessare costituiva una parte importante del bene che potevo operare nei confronti dei miei parrocchiani». E oggi, che ne è del sacramento della Penitenza? Oggi i confessionali sono sempre più vuoti di fedeli e di sacerdoti! Gliela butto lì. Sorride leggero. «Adesso ho l’impressione che i peccatori siano più peccatori, perché hanno perso il senso del peccato. La confessione è diventata una grande sconosciuta. Per i sacerdoti presi da mille altre incombenze e per i fedeli che sembrano non sentirne più alcun bisogno. Dobbiamo lavorare molto per far capire che quello della Penitenza è un sacramento irrinunciabile». Proprio così: irrinunciabile! Si, ma forse un tempo si eccedeva … «Si esagerava allora e si esagera adesso. Occorre trovare una misura. Certo, la confessione deve arrivare quando c’è il bisogno non per abitudine. Ma non si può abbandonare il confessionale e pretendere di far crescere comunità migliori e adulte nella fede».

Le è mai capitato di dover ammonire pubblicamente, dall’altare? «No, mai. Non era nel mio stile. Io preferivo l’ammonizione privata. Non serve umiliare, anzi può essere perfino controproducente… E con questo metodo ho avuto tante soddisfazioni». E di negare l’assoluzione? «No, mai. Ho sempre cercato di sciogliere, mai di legare. Mi sono sempre sentito ministro di misericordia non di giustizia». E la grata? «Un tempo era obbligatoria, ma non mi è mai piaciuta. In cuor mio ho sempre pensato: che bisogno abbiamo di nasconderci se siamo ambedue sinceri?». Più padre, giudice o maestro? «Soprattutto padre, perché mi toglieva ogni possibile atteggiamento di superiorità». Penitenti in lacrime? «No, penitenti in lacrime non ne ricordo; ma penitenti molto turbati sì. Perciò mi piaceva sempre iniziare dicendo: coraggio, non avere paura, Dio già sa tutto di te e non vede l’ora di perdonarti».

Dietro la grata o facendo due passi sul sagrato, sentiva di essere come Gesù che verso i peccatori aveva sempre parole di comprensione, di sostegno, di tenerezza, di speranza irragionevole secondo la legge, e perfino di amore ingenuo. Le parole rivolte alla donna che trema ai suoi piedi, “Va e d’ora in poi non peccare più”, sono state il suo faro nell’ammonire e nell’offrire speranza. «Ascoltare le confessioni mi rendeva felice. Mi faceva capire quanto la mia povera persona, in virtù del mandato ricevuto il giorno dell’ordinazione per mano del vescovo, fosse utile ed importante per crescere e far crescere nella vita di fede. Sentivo quasi il bisogno di sedermi nel confessionale. No, non per ascoltare peccati, ma per regalare Grazia».

Il giovane sacerdote che mi accompagna gli chiede un consiglio. «Mai scoraggiarsi e mai ritenersi importanti, ma considerare sempre se stessi come strumenti della Misericordia di Dio. Ah!, e pregare, pregare molto; iniziare a confessare solo dopo aver pregato. E confessarci. Noi per primi». Perché, come ricordava sant’Agostino, ammonire i peccatori è possibile solo se è il sacerdote a liberare per primo il suo cuore dal peccato: “Volete rimproverare il vostro prossimo? Perché cercare chi è lontano? Il prossimo che vi è più vicino, che avete davanti a voi, siete voi stessi”. È anche per questo, sicuramente, che il suo è sempre stato un sorriso sereno. E buono.

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